INTERVISTA CON ELISABETH VONARBURG.

Buongiorno a tutti e buon inizio settimana! Vi propongo questa mia intervista con la scrittrice Elisabeth Vonarburg, una artista fondamentale nella cultura fantascientifica nord americana. Di origine francese Elisabeth Vonarburg è stata ed è unfigura indispensabile per la rinascita e diffusione della fantascienza franco-canadese nel Mondo ed in patria. Ringrazio Elisabeth per questa splendida conversazione, per la sua gentilezza e per avermi regalato una delle più belle interviste di tutta la vita di Nocturnia. Io desidero anche ringraziare la scrittrice Adriana Lorusso per avermi messo in contatto con Elisabeth Vonarburg. Al termine della versione in lingua italiana i lettori francofoni potranno trovare la versione originale in lingua francese. 

Buona Lettura! Attendo le vostre impressioni!

 (For french version, please scroll down)

 ( Pour la version française, se il vous plaît faites défiler vers le bas!)

 Nick:  Benvenuta su Nocturnia Elisabeth, è davvero un grande piacere averti ospite del mio blog. Era da anni che desideravo intervistarti Come prima domanda ti chiedo di raccontarci dei tuoi inizi e del momento in cui hai deciso di diventare una scrittrice.

Elisabeth Vonarburg: Avviso iniziale: uso il termine "lecteurices" e "auteurices", nella forma femminile, come plurale di "lettore\lettrice" e "autore\ autrice"... 

 Per essere sincera, non ho deciso o scelto di diventare una scrittrice. Da bambina, volevo diventare una pittrice. Ma sono stata abilmente scoraggiata dal diventarlo perchè ricevevo molti complimenti tutte le volte che qualcosa... È successo poco a poco. Un percorso comune a molti: infanzia solitaria, genitori loquaci, che mi parlavano spesso senza farsi limitare dalla mia età, e per di più grandi lettori: tanti libri in casa; la scoperta con meraviglia, avvenutamolto presto, del potere delle parole: potevo raccontarmi delle storie senza dover aspettare che qualcuno me le leggesse! L'adolescenza è stata solo leggermente meno solitaria - non era per niente divertente essere una ragazza solitaria nella campagna degli anni '60; la maggior parte della mia soddisfazione narcisistica veniva ancora dalle lodi che ricevevo (dai miei insegnanti, adesso) per quello che scrivevo... e avevo un'amica al liceo che era selvaggia e amante delle parole quanto me, così ci incoraggiavamo a vicenda... Tutto questo, e anche un anno di diario scritto dai sedici ai diciassette anni (non ne potevo più!) mi hanno finalmente indirizzato verso la scrittura come principale mezzo di espressione, e verso la narrativa - ma sicuramente non l' auto-fiction (1) (Nota di Nick autobiografia- romanzata), per carità! (Ci ho anche provato quando avevo quindici anni, ma ho smesso molto rapidamente...). Ho trovato la mia vita abbastanza difficile senza rinfacciarmela con l'auto-fiction! In effetti, trovavo la vita reale in generale piuttosto dolorosa, non volevo metterci delle storie - e poi ero troppo occupata a cercare di viverla, questa cosiddetta vita reale! Questo mi capita ancora, a proposito. La scoperta della fantascienza è arrivata al momento giusto per permettermi di scrivere immaginando di non parlare di me stessa. Quando ho imparato a scrivere, circa dieci anni dopo, questa illusione si è dissipata - perché, naturalmente, si parla sempre di se stessi, ma l'ego non deve essere una cosa piccola, centripeta ed angusta, è tutto ciò che ci tocca e ci attraversa, cerchi sempre più ampi che si espandono fino all'universo se si osa immaginare. E con la fantascienza (e i suoi generi cugini) potevo finalmente osare.


Nick:   Quali sono stati gli scrittori e le opere ( romanzi, fumetti, film, serie televisive) che ti hanno maggiormente influenzato come appassionato prima ancora che come autrice.
 E cosa ti ha avvicinato alla fantascienza e alla narrativa fantastica in generale?

E.V:  Dal momento che sono una snob, non sono mai stata una fan :-). Piuttosto sono sempre stata una lettrice entusiasta e assidua, questo sì. Avevo quindici anni quando un amico mi prestò il libro di Louis Pauwels e Jacques Bergier, Le Matin des Magiciens. Tra le altre cose sorprendenti (e a volte vere) storiche e scientifiche, c'era questa affermazione scioccante: "La fantascienza è l'unica letteratura moderna". E poiché questa affermazione era supportata da estratti di testi (oltre a Huxley e Orwell, naturalmente, c'erano Sturgeon, Simak, Clarke, Lem, Asimov, Stapledon, Lovecraft e così via), la cosa mi aveva convinto. Ho iniziato a perlustrare le librerie - possibile  che non riuscissi a trovare quasi nulla? - e le librerie di seconda mano... ah, beh, ce n'erano alcune di cose , a volte mal tradotte, ma comunque leggibili, e iole  leggevo più per le idee e il sense of wonder, ivi contenute  naturalmente, all'epoca, piuttosto che per la scrittura Ho scoperto la collana Présence du Futur, delle Edizioni  Denoël, e la collana  Le Rayon Fantastique, e le Edizioni Marabout... Ma dopo un anno di ricerche ossessive, ho rapidamente esaurito ciò che era disponibile in lingua francese, e ho iniziato a cercare in inglese, soprattutto perché un rienditore di libri usati al mercato settimanale di fronte al mio liceo vendeva una collezione completa di riviste come Fiction e Galaxie, da lui ho comprato tutto ciò che il mio modesto salvadanaio mi permetteva - ahimè, non tutto quello che avrei voluto. Ho scoperto un sacco di altri autori inglesi e americani (e alcune autrici) lì: ora sapevo quali nomi cercare in inglese (Aldiss! Ballard! Delany! Cordwainer Smith. C'erano anche autori francesi (Renard! Klein! Dorémieux! Demuth!). Per fortuna, l'anno seguente mi sono iscritta all'università (a Digione) e la libreria universitaria era ben fornita di libri inglesi - in particolare della Penguin Books. Come puoi notare la maggior parte delle mie influenze di SF & Co erano letterarie (e maschili, almeno fino fino agli anni 70!). Niente TV, non ne avevamo in casa, niente film, pochissimi fumetti (a parte Valerian, certamente...). Certo, ero abbonata a Spirou, Tintin e Pilote - prima di scoprire che la maggior  parte di ciò che mi piaceva in queste riviste erano la SF, il fantasy e il fantastico! Non conoscevo queste cose ; non facevano parte dell'educazione delle ragazze ai miei tempi, specialmente al liceo classico... Li ho scoperti solo quando ho letto Il Mattino dei Maghi. Sono affascinata dalla conoscenza (nel senso più ampio del termine), in tutti i campi, e dal mistero - sia da quello della cosiddetta natura umana così come da quello dell' universo intero. Così, quando ho scoperto la fantascienza (prima di ogni altra cosa, e sempre più degli altri due generi citati ), mi sono sentito come se fossi finalmente arrivata a casa. La SF è la letteratura degli interrogativi - e io sono una incorregibile ricercatrice di curiosità; è una letteratura che ti invita a uscire dalle scatole del pensiero ordinario - e io odio le scatole, tranne quando sono biodegradabili una volta che hai scoperto cosa c'è dentro. È un grande genere poetico, comunque, la fantascienza - e io scrivevo poesie prima ancora  di scrivere narrativa (lo faccio ancora, tra parentesi). Un po' più tardi, negli anni '70, visto che stavo diventando sempre più consapevolmente femminista, mi resi conto dell'immenso potere euristico del genere ed ero finita  così con lo scoprire tutte quelle donne che scrivevano una provocatoria forma di  SF e fantasy, così poco tradotta in francese, e di cui quasi nessuno parlava. Le Guin sopra tutte, una scoperta  avvenuta naturalmente, nel 1969 - il grande shock causatomi dalla lettura de La Mano Sinistra delle Tenebre,ha fatto si che la Le Guin diventasse l'interlocutrice di tutta la mia vita, quella con cui non ho mai smesso di mantenere una conversazione letteraria e umana da allora.

Nick: Vorrei soffermarmi ancora al periodo degli inizi: al tuo arrivo da Parigi nel Quebec,  alla tua direzione della rivista "Solaris" e al primo convegno "Boreal" quando avete praticamente creato ( o ri-creato) la fantascienza del Canada francofono che prima quasi non esisteva. Parliamo di quel periodo.

E.V:   Sono arrivata in Quebec per puro caso - il fatto che mio marito di allora sia stato inviato all'Università di Chicoutimi, nell'ambito di un programma di cooperazione internazionale. Ero insegnante in un liceo in Borgogna (Per la cronaca: non ho mai vissuto a Parigi, anche se ci sono nata), fresca di diploma ad hoc (capèssienne e agrégée de lettres), ma nel 1973 la Francia del post '68 era diventata un luogo particolarmente tetro. Così si è trattato di una fuga, un'avventura, verso il Nuovo Mondo... che non avevamo nemmeno scelto nella nostra domanda! Abbiamo deciso per noi stessi, e la sincronicità ha fatto bene: mi sono innamorata del paese (nello specifico della Regione del Saguenay, dove vivo tutt'ora), durante il primo inverno trascorso lì - erano inverni veri, a quei tempi, grandiosi - sigh... Saranno esattamente cinquant'anni nel 2023, e non da quel giorno mi sono mai guardata indietro. Mi considero una scrittrice francofona - e quebecchese, non francese. Nel 1974, Sainte Chronicité mi fha fatto un altro regalo, permettendomi di incontrare il responsabile (un altro emigrato francese) della fanzine Requiem, che era appena nata. Sono diventata prima saggista e critica, poi direttore letterario non ufficiale, e lì vi ho anche pubblicato i miei primi racconti. Ho continuato su quella strada quando la rivista ha cambiato il nome in  Solaris. E in effetti ho organizzato il primo Congresso Boréal, nel 1979, a Chicoutimi, all'interno del quale gli appassionati del genere (e anche alcuni dilettanti) - ampiamente sparsi in questo vasto territorio - hanno avuto l'opportunità di incontrarsi, iniziando così il processo di creazione del "Quebec SF milieu". Con la mia esperienza da direttore letterario dilettante, e pur continuando a insegnare letteratura a livello universitario, ho anche iniziato a dare laboratori di scrittura in quel periodo, un'impresa che ho continuato nel tempo , con qualche eclissi, e che continua ancora. Due generazioni di scrittori sono passati attraverso le mie grinfie e sono sopravvissuti per alimentare il corpus della narrativa di genere  del Quebec pubblicando romanzi e racconti, la terza generazione sta cominciando a fiorire e, lo ammetto,  non ne sono per niente infelice.

Nick: Sei generalmente conosciuta come la "Grand Dame de la science -fiction québécoise", tuttavia nel corso degli anni molte delle tue storie sono state tradotte anche in inglese, se non erro una delle prime traduzioni, se non la prima in assoluto, è avvenuta nelle antologie "Tesseracts" per merito della grande Judith Merril, ti andrebbe di tracciare un tuo ricordo o parere su di lei?

E.V: Avevo conosciuto Judith Merril prima attraverso i suoi testi, che si trattasse del suo iconico racconto "That Only A Mother" o delle sue prefazioni per antologie di SF "moderna" - era molto attiva in questo campo, in particolare stava promuovendo la "new wave" inglese. Era una delle poche (all'epoca) scrittrici di SF che mi ha fatto capire che anche le donne potevano scrivere SF rilevante per le lettrici - prima della Le Guin, intendo. C'era Catherine Moore, naturalmente, e Marion Zimmer Bradley (che allora non era controversa) ma erano entrambe considerate abbastanza mainstream. Comunque, la Merril era una specie di mostro sacro per me. Quando seppi che abitava a Toronto, decisi di invitarla alla seconda convention Boréal che si sarebbe tenuta a Chicoutimi nel 1982, una grande manifestazione internazionale. E lei ha accettato, santo cielo! Così ho avuto l'opportunità di ascoltarla e di parlarle da vicino - e anche di vederla ballare alla festa; ho deciso fermamente allora che volevo essere lcome ei da grande. Abbiamo legato. Il mio romanzo Le Silence de la Cité è stato pubblicato nel 1981 e ha vinto il Prix Boréal nel 1982, assegnato in occasione della conferenza. Ci siamo incontrate di nuovo diverse volte - sono andata a Toronto e alle convention di SF del Canada anglofono durante gli anni '80 - e lei è diventata per me  "Judith". Per inciso, nel 1979 avevo pubblicato un racconto intitolato  “Marée haute” (“High Tide”) per  una raccolta in lingua inglese chiamata  Twenty Houses of the Zodiac. Suppongo che Judith mi avesse nel suo radar come scrittrice. E in effetti mi ha chiesto di scrivere per  la prima della serie delle antologie Tesseracts, nel 1985. Sono sicuro che senza questa inaspettata vetrina, la mia "carriera" in inglese, per quanto breve, non sarebbe mai avvenuta. Sulla scia di tutto questo, Le Silence de la Citè  è stato tradotto, e ho continuato a pubblicare diversi racconti in tante antologie Tesseract e anche  negli Stati Uniti. E non avrei mai potuto incontrare la  Le Guin di persona, per quella che sarebbe diventata un'episodica amicizia epistolare, all'Harbourfront Literary Festival del 1986, dove c'era un'intera sezione sulla SF e sugli altri generi, e dove Judith mi aveva invitato, assieme alla mia eccellente traduttrice Jane Brierley, a leggere un estratto di un mio racconto pubblicato su Tesseracts. Devo molto a Judith Merril, e non sono l'unica.

Nick: Vorrei rimanere in questo ambito, oltre ad essere stata tradotta tu stessa hai adattato in lingua francese le opere di molti autori anglofoni (cito tra gli altri: Ian Watson; Guy Gavriel Kay;Tanith Lee e K. Kathryn Rusch)Secondo la tua esperienza quanto la traduzione è più quello che aggiunge o quello che toglie al testo originale? Inoltre l'essere tu stessa una autrice ti ha mai condizionato in qualche modo nel tuo lavoro di traduttrice?

 E.V: Non sono una traduttrice professionista, non ho fatto nessun corso. Sono solo una lettrice un tempo bulimica, che ha studiato molto la letteratura e ha avuto la fortuna di non esserne disgustata :-),  sono una persona che ha insegnato e che ha cercato di non disgustare i suoi studenti, e per la quale la comprensione del mondo avviene attraverso le parole, attraverso la scrittura. Queste erano le mie uniche qualifiche quando, nel 1979,  mi precipitai ai piedi di Élizabeth Gille, direttrice della collana Présence du Futur, perché mi lasciasse lavorare alla traduzione del romanzo di James Tiptree Jr, alias Alice Sheldon, Up the Walls of the World. Beh, se per questo quando avevo sedici anni, solo per il mio piacere, avevo tradotto un romanzo di John Wyndham, The Chrysalids, ma questo era tutto! La mia traduzione del 1976 di Tanith Lee (The Birthgrave) per la Marabout non è mai stata pubblicata, per quanto ne sappia (e confesso che le ragioni di questo, se mai le ho conosciute,si sono perse nel limbo nebbioso della mia fragilissima memoria . l'unica cosa che so è  che sono stato pagata! :-)). Ma dopo la traduzione fatta per la Denoël, e soprattutto  durante gli anni '80, quando, dopo che mi ero separata da mio marito, avevo più difficoltà a sopravvivere materialmente, la traduzione è diventata una preziosa attività secondaria. E anche quando non scrivo per vari motivi ne rimango frustrata, la traduzione mi viene in soccorso: tradurre è ancora scrivere. Poiché una traduzione deve servire per far si che i testi si presentino al meglio delle loro possibilità, a volte, sì, in casi molto specifici, e dopo lunghe conversazioni con gli autori che magari non avevano ricevuto la direzione letteraria adeguata, può puntualmente anche migliorarli. Questo mi è capitato in una o due occasioni. E poi, ogni traduzione è comunque un adattamento, un'interpretazione; infatti secondo me invece di "tradotto da", si dovrebbe scrivere "interpretato da". In ogni caso, essere uno scrittore è certamente un vantaggio per la traduzione. Può anche essere un pericolo - il pericolo di proiettare il proprio stile su quello degli autori tradotti; ma è un pericolo che ho conosciuto molto presto e con il quale ho anche imparato a fare i conti  molto presto. [Per la cronaca: quando ho tradotto i racconti di Ian Watson, con i quali mi sentivo così in sintonia con la mia scrittura al punto tale che che ne ero anche preoccupata - lui mi ha rassicurato :-)].

Nick: Nel romanzo "Le Silence de la Cité" (1981) la giovanissima protagonista scopre che la maggior parte delle persone attorno a lei sono dei robot o esseri modificati genticamente. questo però le darà lo spunto per compiere affrontare la verità sul mondo che la circonda. Sbaglio o quello della ricerca, della scoperta e dell'esplorazione sia un tema ricorrente della tua narrativa?

  E.V: Esseri geneticamente modificati? Per me sono androidi, creature ibride organiche e meccano-elettroniche. Perdonami per la correzione, ma lo faccio sempre proprio  non riesco a vedere le mie creazioni ommachs e femmachs definite con la parola "robot". Si tratta di corpi presi in prestito, infatti, non è vero? Utilizzati  da umani che li usano come una sorta di telepresenza. Quindi, sì, (ma a malincuore :-)) sono "robot". Ma d'altra parte, se è vero che le vite degli umani in questione sono state prolungate artificialmente, il romanzo non specifica mai il come - e la modificazione genetica non era per niente di moda quando ho progettato tutto questo, negli anni '70. Questo non impedisce ai lettori contemporanei di proiettare nel tutto le proprie interpretazioni, naturalmente! :-). Per quanto riguarda l'argomento dell ricerca/scoperta/esplorazione, in ogni caso, questi sono i grandi temi della SF, giusto? Lì c'è stata una convergenza. Come ho detto sopra, le mie più grandi gioie sono sempre state conoscere e comprendere (o pensare di comprendere, a volte, ma la soddisfazione è la stessa). Credo fermamente che la curiosità e l'apertura al nuovo sia ciò che ci mantiene elastici e vivi. Spero di morire con tutta la mia curiosità intatta, nonostante tutto.

Nick:  Possiamo dire che in fondo i tuoi sono romanzi di formazione e di crescita scritti in chiave fantasy, ucronica o fantascientifica?

E.V: Per quanto mi riguarda, l'ucronia è sempre fantascienza, anche se finge di essere fantasy (mi riferisco ovviamente ai miei due cicli ucronici, Reine de Mémoire e Les Pierres et les Roses): solo perché gli abitanti del mondo parallelo inventato interpretano eventi o creature come magici o soprannaturali, perché questa è la loro visione del loro mondo, le loro ideologie e religioni, questo non vuol dire che lo siano davvero. Ho anche furbescamente disseminato indizi in questi romanzi che avrebbero poi permesso ai lettori più smaliziati di leggerli e considerarli come fantascienza! Detto questo, tutto quello che scrivo rientra certamente nella categoria dei "romanzi di crescita e formazione", poiché i personaggi imparano e comprendono una serie di cose essenziali per loro, e che incidentalmente diventanto essenziali anche per le società in cui vivono.

Nick: In molte tue opere, penso ad esempio a "Chroniques du Pays des Mères" ("In the Mother's Land") del 1992 e il ciclo di "Reine de la Memoire"(2005-2007), affronti spesso il Tema di come Miti, Credenze e Religioni interferiscano o condizionino (o addirittura costruiscano in toto) la nostra percezione del reale, del passato, del presente e del futuro. E' una ricostruzione sbagliata la mia? E nel caso da dove nasce l'attenzione verso questo argomento?

 E.V: La tua ricostruzione è abbastanza corretta :-). Sono sempre stata affascinato dal rapporto tra menzogne  e realtà - la realtà della finzione, queste cose così. Un dittico delle mie raccolte di testi brevi si intitola:  Vraies Histoires fausses et ... et Autres Petits Mensonges. I miei genitori mi hanno raccontato molto della loro vita, che era stata molto avventurosa e ricca di eventi. A lungo li ho considerati come personaggi di un romanzo. Fino al giorno in cui  non ho cominciato a sospettare che questa storia familiare fosse per l'appunto solo una invenzione, storie che sia mia madre che mio padre si sono raccontati per tutta la vita sul loro passato. C'è stato un tempo in cui ho riassunto il tutto con la frase "mi hanno mentito parecchio", ed ero davvero arrabbiata con loro, ma poi mi sono calmata: come posso non essere consapevole che sto facendo, che tutti noi stiamo facendo lo stesso per  tutto il tempo? Ci raccontiamo le nostre vite almeno quanto le viviamo. Queste storie possono essere una fuga, ma possono anche avere un valore terapeutico di protezione, così come possono essere profetiche: costruiamo la nostra vita raccontandoci, immaginando, le sue possibilità -anche io  l'ho fatto troppo spesso, e con risultati molto concreti, per poterlo negare con me stessa. Pensa allrappresentazione  degli sportivi, degli sciatori alpini prima di una gara, per esempio... Lo stesso vale per le società e per le culture. Queste storie collettive alimentano e mantengono la coesione sociale - però possono anche uccidere, uccidono molto... Alla fine del XX secolo, si sosteneva spesso che questo periodo era, se non la fine della storia (!), almeno la fine delle "grandi storie", delle ideologie politiche o di quelle religiose che erano state le grandi storie collettive di tutto l'Occidente. Una piacevole illusione. Sono ancora quì  più vivi che mai, si sono solo trasformati, tutto qui. Come dice la fantascienza, e come sosteneva  Eraclito: nulla è permamente tranne il cambiamento. Gli esseri umani non possono vivere senza storie, è lo stesso vale per  le società che gli esseri umani eriggono. Non so se gli animali si raccontano storie - è possibile, e sarebbe meraviglioso impararle - ma sono completamente d'accordo con la descrizione che dice che : "l'essere umano è un animale che si racconta storie".

 
Nick:  Mi piace molto il personaggio di Lisbeï in "Chroniques", Ti va di presentarla ai lettori italiani che ancora non la conoscono?

 E. V: Per citare Flaubert: Lisbeï sono io :-) Ma  in fondo io sono tutti i miei personaggi, ognuno di loro rappresenta una delle mie sfaccettature (comprese  le vilaines” e “vilains "). A volte lo sottolineo in una maniera più  deliberata, come in questo caso (Lisbeï/Elisabeth). Non sempre l'ho fatto in maniera consapevole. Fu solo dieci anni dopo la pubblicazione de Le Silence de la Citè che alcuni studenti che incontrai in un college mi fecero notare come "Elisa" (la protagonista principale del romanzo) ed "Elisabeth" si assomigliassero un po'. Ero sbalordita! Avevo avuto ragioni perfettamente logiche e coerenti, all'interno della mia trama, per chiamare così il personaggio! Poi ho visto in esso la conferma concreta di ciò che avevo precedentemente solo considerato da un punto di vista teorico: nella narrativa, tutti i nomi compresi i nomi dei personaggi non sono mai, (non devono mai esserlo), essere innocenti - casuali. Inoltre, mi sono resa conto di quanto stessi proiettando me stessa nei miei personaggi, e che sinergia e che collegamento poteva esserci tra il mio nome, nelle sue prime due sillabe (Eli), con il femminismo in cui mi riconosco (lei/lui) e con la mia fantasia da creatore ("Eli" è Dio, in ebraico). Oh, cavoli! Torniamo adesso a concentrarci su  Lisbei. Lei è, naturalmente, il tipico  personaggio di quei romanzi di formazione di cui parlavamo prima, e prima di tutt orappresenta  la formazione dei lettori, perché Lisbei funge loro come guida nel mondo che ho creato - per questo l'ho presa quasi dalla culla. È colei che apprende e che comprende e attraverso la quale (tra le altre cose) si verifica il cambiamento. Ma per me, Lisbei non esiste da sola. Sin dall'inizio - e tieni presente che ho cominciato a immaginare questo mondo e queste storie già a partire dal nel 1978 - si tratta di un dualismo tra Lisbeï e la sua sorellastra Tulla (che oltretutto completa  l'anagramma del mio nome!) Tutto questo è nato da uno dei miei "sogni fantascientifici" (sono una sognatrice, e ho delle categorie per i miei sogni ..) dove due giovani ragazze erano legate da un amore estremamente potente in un universo piuttosto barbaro e selvaggio. Molti considerano le Chroniques  come un' opera femminista, comeuna riflessione sociale, ecologica e politica, e tutti questi elementi certamente ci sono - ma il romanzo che ho scritto, quello che ho letto io, quando ho riletto Chroniques, è la storia della scoperta e dell'accettazione dell'Altro. Dal punto di vista femminista, naturalmente, è il riconoscimento e l'accettazione dell'umanità del maschio da parte della cultura di Lisbei - e della stessa Lisbei per cominciare. Ma più in profondità, a causa di una delle conseguenze della mutazione segreta che lei condivide con Tulla, la percezione ed emissione di sensazioni/emozioni, Lisbei ha molta difficoltà a separarsi dalla relazione troppo fusionale con Tulla, quando invece dall'altra parte Tulla cerca di venirne fuori per poter esistere a pieno titolo. Tulla, per Lisbei, è la "Stessa" (Nota di Nick: "Même" in originale)  , "colei che è come me" - l'illusione della somiglianza che è sì necessaria fino a un certo punto, ma dalla quale ci si deve poi liberare per vedere veramente e cominciare a comunicare con l'Altro. Come dicevo in una delle mie canzoni - visto che sono stata una cantautrice :-) - "è la distanza che rende possibile vedere l'altro". -è la distanza tra i nostri corpi che permette loro di toccarsi. Per me, non è Lisbei, ma il rapporto problematico tra Lisbei e Tulla quello che guida l'intera storia.
 


 Nick: L'argomento religioso torna nuovamente nel ciclo"Les Pierres et les Roses", m'incuriosisce molto la tua versione del cristianesimo al femminile , parliamo di questo nuovo ciclo.

E.V: L'universo di Les Pierres et les Roses è parallelo a quello di Reine de Mémoire, che è stato pubblicato nei primi anni 2000. Sono entrambe delle ucronie ambientate in Europa, ma la prima (RdM) si svolge a cavallo tra un immaginario XVI secolo e l'inizio del XIX secolo, mentre la seconda (P&R) è ambientata in un Medioevo altrettanto inventato. Entrambi i cicli partono dagli stessi punti di divergenza con il nostro universo: in primo luogo, ci sono capacità umane interpretate come magia, i cosidetti 'talenti', e in secondo luogo, questa magia è inscritta e inclusa in un sistema religioso coerente: la fonte sono i Gemelli, figli della Divinità che li ha portati in vita sulla terra per la trasformazione salvifica degli esseri umani attraverso queste capacità e la loro relazione con il 'Mondo superiore', un piano consustanziale al nostro, che riconosce queste capacità. Per farla breve,in questo universo Ieshu-Gesù ha una sorella gemella, Sephora-Sophia, lui muore sulla croce (ma non per i peccati degli uomini), ed è Sephora che fonda una religione chiamata Geminita. Non esiste nessun "cristianesimo al femminile" in questa ambientazione per quanto mi riguarda :- ). Il cristianesimo qui è la religione di una piccola setta dissidente e intollerante che ha rifiutato sia la "magia" che il ruolo di Sephora (e delle donne in generale ) nel movimento Geminita. I cristiani bruciano i  portatori e le portatrici di "talenti"... RdM si svolge interamente nella parte geminiana dell'Europa (fondamentalmente nella sua parte meridionale, ma anche nelle "Atlandies", che è il nome dato ai continenti scoperti in occidente nel XIII secolo...), i cristiani sono molto periferici nella storia e i geminiti si vedono essenzialmente come i buoni della situazione. Sentivo il bisogno di smorzare un poco la cosa... E per questo ho fatto in modo che, uno dei personaggi umani principali di P&R provenisse dalla parte cristiana del mondo ( dalla Bretagna, nello specifico), ma anche che un altro personaggio sia un ebreo segreto (in questo mondo gli ebrei appartengono a un'altra religione ancora; ho dovuto ricreare tutte le religioni del Libro... e alla fine, il mondo intero!) mentre il terzo personaggio umano... è qualcosa di ancora più diverso. Tuttavia, essendo tutti quanti trasportati fuori dalla loro cultura d'origine per finire su Geminia, tutti loro sviluppano  o acquisiscono una visione critica di entrambe le religioni (e di tutte le altre). Questo non è ovviamente il tema principale di P&R, né di RdM, è solo lo sfondo, il mondo in cui i personaggi vivono la loro storia, ma è comunque il mondo che li ha plasmati. La trama, in entrambi i cicli, è un concentrato di misteri, di avventure, di grandi amicizie e grandi amori che portano o meno a tragedie familiari o collettive, e - anche in questo caso- alla conoscenza..

Nick: Più in generale come nascono i tuoi personaggi? Compi un lavoro di pianificazione a monte prima di scrivere oppure li costruisci e li fai evolvere poco a poco in base alle esigenze della trama?

E .V: Ho già risposto in parte a questa domanda, sia pur in filigrana. Ma non vengono prima i nomi - generalmente, quando una storia mi arriva in mente, diventa quasi subito una cosa del tipo "personaggi in un'ambientazione, che fanno qualcosa": la persona viene prima del nome, del suo stile, a volte anche del suo genere, che rimane comunque spesso soggetto a modifiche. Faccio molto brainstorming, e spesso per molto tempo (P&R è iniziato quasi dieci anni prima di RdM, che a sua volta è stato concepito per la prima volta nel 1998 - però è stato solo quando ho incrociato la trama con la backstory di RdM che la storia è veramente decollata), e sistematicamente mi chiedo come prima cosa: questo personaggio deve essere una donna, un uomo o altro? E così, sì, io "pianifico" prima di scrivere, sia che si tratti di personaggi o di trame - che poi, questo è un indispensabile prerequisito della costruzione di un mondo letterario. Ma non si tratta di una regola rigida . Tutta la fase di brainstorming (che amo perchè mi offre un universo di possibilità...) è un vasto movimento caotico dove tutto è mutevole e per lo più risuonano concetti del tipo: sto cambiando questo cosa... quindi cambierà anche quell'altra... si tratterà di un cambiamento in  meglio? sì... no... forse... oppure... ? E anche se ho un'idea molto buona riguardo all'evoluzione dei personaggi quando (finalmente) inizio a scrivere, avrò sempre sorprese quando  scrivo, altrimenti dove sarebbe tutto il divertimento? E la relazione tra i personaggi e la trama è reciproca: loro fanno evolvere la trama perché essi stessi si evolvono psicologicamente e viceversa

Nick:  Una domanda ancora più generale: mi interesserebbe conoscere la situazione, secondo il tuo punto di vista, della fantascienza franco- canadese Mi rendo conto che l'argomento è complesso, non solo per la vicinanza con gli USA a volte osmotica altre fagocitante, ma anche per i rapporti e le influenze dellla fantascienza francese. Mi piacerebbe avere una descrizione generale di quelle che-secondo te- sono le peculiarità e i punti forza della fantascienza franco- canadese. Ed anche i suoi autori più rapppresentativi, noi conosciamo te, Jean-Louis Trudel, Yves Meynard e alcuni altri, Ma quali sono i nomi e le opere più rappresentativee le loro differenze rispetto alle produzioni statunitensi e francesi secondo la tua opinione?

 E.V:  Hai descritto molto bene il rapporto che intercorre tra la fantascienza americana e... tutte le altre SF nazionali. Perfino gli autori britannici, che hanno una lingua più o meno in comune con gli Stati Uniti, hanno problemi ad emergere, quindi, pensiamo a quanto avviene con le fantascienze non anglofone! Sia in ambito professionale (con la pubblicazione resa ancora più difficile dalla barriera della traduzione) che letterario (le influenze). Qualcuno ha detto da qualche parte - in inglese- che, sebbene sia una cosa probabilmente deplorevole, se non si scrive o almeno non si pubblica in inglese, non si ha alcuna possibilità di partecipare alla costruzione collettiva dei generi SF e fantasy o di diventar parte del famoso corpus canonico. Questa è una cosa ancora tristemente vera e rimarrà tale, per varie ragioni, sia commerciali che culturali, che non approfondirò qui. Se ora passiamo alla questione della relazione tra le varie SF non anglofone quando parlano la stessa lingua, nello specifico la relazione che intercorre tra SF del Quebec e SF francese, beh, è più o meno la stessa cosa, sia pure in modo minore, che intercorre  tra Inghilterra e Stati Uniti. ... o tra il Canada di lingua inglese con l'Inghilterra e gli Stati Uniti - da questo punto di vista commerciale e culturale, ci sono molti paralleli tra il Quebec e il Canada  di lingua inglese (NB: si chiama anche ROC: "Resto del Canada"); e lo stesso si potrebbe dire per la SF svizzera, per quella belga, e quella franco-africana... Il protezionismo commerciale e culturale esiste ovunque, con gli stessi pregiudizi. Ma direi che la SFFQ, come la chiamiamo affettuosamente noi [fantascienza e fantasy del Quebec], è stata più influenzata dal corpus anglofono che da quello francofono, anche se la situazione è cambiato un po' negli ultimi due decenni, da questo punto di vista. Volendo ora affrontare la sua specificità rispetto alle altre....Ecco  "Specificità" è un termine che qui da noi è stato parecchio invocato negli anni '80 e '90, al punto da diventare un ironico meme, in un momento in cui la SF e il fantasy del Quebec stavano davvero decollando e tutti noi ci stavamo interrogando sulle cose che ci differenziavano rispetto alla produzione degli Stati Uniti, della Francia e del Canada anglofono, in termini di tematiche e della maniera di trattazione. In quel periodo, abbiamo anche preso coscienza di ciò che ci rendeva simili alla fantascienza della ROC: invece degli eroi trionfalmente competenti della classica SF americana, noi avevamo molti antieroi o eroi riluttanti; invece dello scientismo dilagante, noi avevamo una posizione critica verso le scienze tecnologiche; e anche un diverso rapporto con la natura, che è padroneggiata o sopraffatta in vari modi nei classici americani, ma che è molto più feroce e indomita nei nostri testi. Tuttavia, quando si leggono abbastanza testi, ci si rende conto che questi sono tratti molto più ampiamente condivisi di quanto si pensi  e all'interno della stessa SF americana, inglese o francese, per prendere solo questi esempi. Il genere è una creazione collettiva, i cui temi o visioni del mondo spesso trascendono le strutture nazionali. Sarebbe senza dubbio più fruttuoso situare gli autori, individualmente, nelle grandi correnti tematiche e ideologiche che attraversano il mondo - in relazione, per esempio, al colonialismo o alla scienza, all'ecologia, al femminismo, ai sistemi politici ed economici, ecc. Lo spettro della produzione di genere è quindi estremamente vario all'interno di una cultura nazionale - difficilmente distinguibile dalla letteratura non di genere - e così tutta la questione della specificità si diluisce nell'indeterminatezza! Gli autori più rappresentativi della SF franco-canadese sarebbero un buon esempio di questa diversità, secondo me: anche se Yves Meynard e Jean-Louis Trudel, che hai citato, e che  sono stati tradotti anche in inglese, non hanno poi molto in comune con una Esther Rochon (di cui almeno un romanzo è stato tradotto in inglese) o una Sylvie Bérard. Né con Alain Bergeron e nemmeno con Jean-Pierre April o Daniel Sernine... o con la sottoscritta; e lo stesso discorso si potrebbe fare  per la terza generazione di autori. Certo, possiamo trovare in tutti loro, e in fondo li abbiamo trovati, echi di queste grandi tendenze mondiali o di questi probabili caratteri "canadesi" che ho menzionato prima, ma ognuno di questi autori ed autrici  li tratta a modo suo. Non cito nessun opera in particolare; in questi tempi di ricerche su google, un po' di curiosità attiva non fa male :-).

Nick:  Invece a livello internazionale, quali sono gli autori che segui con maggiore attenzione ed interesse?

E.V: Devo ammettere che negli ultimi anni, per ragioni relativamente fuori dal mio controllo, ho abbastanza smesso di leggere. Ma sto ricominciando! In lingua inglese, direi, citandoli alla rinfusa tra quelli quelli "vecchi": John Crowley, Christopher Priest e Kim Stanley Robinson, mentre tra quelli "nuovi" - e tra quelli  ancora più  recenti direi : Ted Chiang, Ken Liu, Aliette de Bodard, Ann Leckie, Becky Chambers... Ma apprezzo  anche la fantascienza non occidentale (quella asiatica de afrofuturista, in particolare). In lingua francese, seguo quegli autori che rappresentano una sicurezza: Dunyach, Paquet, Laîné, o i nuovi: Sabrina Calvo, per esempio... E più di recente Lucazeau. In ogni caso, questo è quello che c'è nella mia PAL ( Nota di Nick: acronimo di di "pile à lire", in francese si indica la pila dei libri in coda di lettura). Sono rimasta talmente indietro che, quando vado online a visitare le sezioni di libri di genere,tra i non francofoni, non riconosco il 95%, o addirittura il 98%, dei   nomi elencati!

Nick: Ti propongo un gioco: se tu dovessi consigliare qualcosa  di tuo a chi non ne ha mai letto niente, cosa consiglieresti? Quali romanzi, racconti e se vuoi parla anche di quei personaggi che ti sono rimasti più nel cuore.

E.V: È un gioco crudele da fare per un* scrittore\scrittrice! Ma si può cominciare con Le Silence de la Cité  e/o Chroniques du Pays des Mères (che vanno insieme). Oppure, se volete cominciare con un assaggio delle tematiche senza necessariamente basarsi su un intero romanzo (Le Silence è relativamente corto, ma Chroniques è composto da più di 400 pagine), ci sono le raccolte di racconti, la prima, per esempio, La Maison au bord de la mer. Veniamo adesso ai personaggi cari al mio cuore... ma sono tutti cari al mio cuore! Ce n'è uno, però, nella saga di Tyranael, che mi è molto caro - dopo tutto, è il romanzo che ho cominciato quando avevo  sedici anni, che ho scritto e riscritto maniacalmente per quindici anni e finalmente pubblicato trentaquattro anni dopo averlo iniziato. Ho imparato a scrivere con questa saga, mi ha tenuto compagnia durante la mia adolescenza e la mia giovane età adulta, nessuna delle quali è stata molto felice, ho vissuto - anzi mi sono rifugiata - per tutto quel tempo nei suoi paesaggi, con la sua fauna, la sua flora e i suoi personaggi: come potrebbe non essere "più cara al mio cuore" di così? Il personaggio è uno dei tre protagonisti del volume IV, L’Autre Rivage, e il suo nome è prima  Lian, e poi Liam ( nella storia deve cambiare un po' il suo nome). Per niente integrato  nel suo mondo natale, gli succede altrettanto anche sull'"altra riva", l'altro mondo dove si ritrova senza averlo realmente voluto. Ha subito traumi terribili, ma cerca di vivere una seconda vita, che non sarà meno traumatica all'inizio (ma ti assicuro che poi però finisce bene :-)); ed è uno scrittore: presenta la fauna e la flora della sua terra natale sotto forma di racconti inventati. Uno scrittore, una persona tra due mondi, è di nuovo il discorso che facevamo prima sulla verità della finzione, tutto questo, eh? Per questo ti ho detto che proietto me stessa in tutti i miei personaggi!

Nick: Progetti futuri: a cosa stai lavorando adesso e cosa ci dobbiamo aspettare da Elisabeth Vonarburg nel prossimo futuro?

E.V: Elisabeth Vonarburg comincia ad essere piuttosto sfiancata nel fisico, si sta stancando. Gli ultimi cinque anni sono stati particolarmente difficili, con la Catastrofe che si profila sempre più chiaramente all'orizzonte (e che, come tutti coloro che soffrono della mentalità fantascientifica, ho visto arrivare da... molto tempo -dagli  gli anni 70, per quanto mi riguarda); e po sono stati gli anni di Trump, e della pandemia.... In breve, il mio ultimo quarto di secolo non si preannuncia felice, e devo confessare che sta prosciugando un po' la mia vena creativa. Sono riuscita a terminare e a far pubblicare il mio ultimo romanzo (Les Pierres et les Roses) tra il 2017 e il 2018, e questo  a malapena, perché a quel punto stavo davvero iniziando a distruggerlo. Ma poi... Silenzio radio. Un racconto breve su un tema predeterminato (un possibile futuro della mia regione) mi ha preso tutto il 2020 per scriverlo, 38 minuscole pagine, il che è tutto dire! Dovevo scrivere un altro romanzo, di fantascienza hard, ci ho lavorato ostinatamente per tutto il 2019, ma il mondo continuava a sbattermi contro ogni volta che aprivo internet (non leggo più i giornali, non ascolto più  la radio, facebook è il mio filtro - ma  non troppo, ovviamente), e non sono riuscito a finirlo con soddisfazione. L'immenso retroterra che ho costruito per questo romanzo mi è comunque servito per scrivere una novella, "Une histoire d’Ikuatèn". Il significato della parola "novella" è "romanzo breve" in inglese, e questo testo lo è, perchè è composto da 150 pagine! È stato pubblicato in Quebec, per un'antologia intitolata Échos du Centaure. E attualmente sto lavorandosu un'altra novella ambientata nello stesso scenario ma in questo caso sono nella fase del brainstorming, quindi non sono ancora  nella fase di scrittura.



Nick:  Bene Elisabeth, siamo arrivati alla fine. Nel salutarti e ringraziarti ancora ti saluto rivolgendoti la classica domanda finale di Nocturnia: esiste una domanda alla quale avresti risposto volentieri, una questione di cui avresti parlato volentieri e che io invece non ti ho rivolto?

Elisabeth Vonarburg:  I Laboratori di scrittura.Ne sono un fervente sostenitrice, perché so quanto ho imparato e quanto continuo a imparare gestendo il mio fin dal 1979. Non scrivere da solo, ricevere un feedback su quello che scrivi (ma non dai tuoi genitori o dai tuoi amici miopi), essere costretto a scrivere a volte sotto pressione e rendersi conto che puoi farlo, uscire dalla tua comfort zone , imparare vedendo come scrivono gli altri.... Tutto questo è estremamente formativo. Certo, richiede una buona dose di umiltà e unvero desiderio di imparare a scrivere piuttosto che giocare a farlo (che, ahimè, è quello che fanno molti cosiddetti laboratori di scrittura), ma le ricompense che ne vengonovalgono bene lo sforzo. A volte mi chiedono quale sia il mio libro preferito, o quello di cui sono più orgogliosa, e io rispondo sempre per primo Comment écrire des histoires, il libro che ho pubblicato sulla scrittura nel 1986. Può sembrare arrogante da parte mia usare la tua ultima domanda per pubblicizzare questo libro, ma è l'unico dei miei di cui parlo senza senza vergogna, perché è stato ristampato almeno quattro o cinque volte da allora, sempre con un'accoglienza critica più che favorevole (l'ultima edizione risale al   2013) e la sua utilità è stata riconosciuta dalle generazioni successive alla mia che se ne sono nutrite, sia nelle istituzioni educative, che nei laboratori di scrittura extrascolastica che dai semplici autodidatti. Ha servito e serve uno scopo, e i lettori me lo assicurano continuamente. Il fatto che anche i miei romanzi di narrativa possano servire a qualcun altro invece è una cosa  è molto più incerta...

    INTERVIEW AVEC ELISABETH VONARBURG - LA VERSION FRANÇAISE !
 
Bonjour à tous et bon début de semaine ! Je vous propose cet entretien avec  Elisabeth Vonarburg, une artiste fondamentale dans la culture de la science-fiction nord-américaine. D'origine française, Elisabeth Vonarburg a été et reste une figure incontournable de la renaissance et de la diffusion de la science-fiction franco-canadienne dans le monde et dans son pays. Je tiens à remercier Elisabeth pour cette merveilleuse conversation, pour sa gentillesse et pour m'avoir accordé l'une des plus belles interviews de toute la vie de Nocturnia. Je tiens également à remercier l'écrivain Adriana Lorusso pour m'avoir mis en contact avec Elisabeth Vonarburg.

Bonne lecture à tous !

Nick: Bienvenue sur Nocturnia, Elisabeth, c'est un grand plaisir de vous avoir comme invitée sur mon blog. Cela fait des années que j'ai envie de vous interviewer. Comme première question, j'aimerais que vous nous parliez de vos débuts et du moment où vous avez décidé de devenir une écrivaine.

 Elisabeth Vonarburg:  Avertissement initial : j’utilise le terme “lecteurices” et “auteurices”, accordés au féminin, comme pluriel de “lecteur/lectrices” et “auteur/autrice”... :-)

 À vrai dire, je n’ai pas décidé ni choisi de devenir écrivaine. Enfant, je voulais devenir artiste peintre. Mais on m’a habilement découragée de l’être en me félicitant beaucoup lorsque j’écrivais quelque chose... C’est arrivé peu à peu. Une trajectoire commune à beaucoup : enfance solitaire, parents loquaces, qui me parlaient souvent au-dessus de mon âge, et de surcroît grands lecteurs : beaucoup de livres à la maison ; découverte émerveillée, très tôt, du pouvoir des mots : je pouvais me raconter des histoires à moi-même sans avoir à attendre qu’on m’en lise ! Adolescence à peine moins solitaire – et ce n’était pas gai d’être une fille isolée à la campagne dans les années 60 ; l’essentiel de mes satisfactions narcissiques me venait encore des félicitations que je recevais (de mes profs, à présent) pour ce que j’écrivais... et j’ai eu au lycée une amie aussi sauvage et amoureuse des mots que moi, nous nous sommes encouragées mutuellement... Tout cela, et une année de carnet intime de seize à dix-sept ans (je n’ai pas pu le supporter plus longtemps !) a fini de m’aiguiller vers l’écriture comme principal moyen d’expression, et vers la fiction – mais surtout pas de l’auto-fiction, grands dieux ! (j’ai essayé, à quinze ans, et j’ai arrêté très vite...). Je trouvais ma vie assez pénible sans me la renvoyer dans la figure avec de l’auto-fiction ! En fait, je trouvais la vie réelle en général assez pénible, je n’avais pas envie de situer des histoires là-dedans – et puis j’étais trop occupée à essayer de la vivre, déjà, cette vie soi-disant réelle ! C’est d’ailleurs toujours le cas. La découverte de la science-fiction est arrivée à point pour me permettre d’écrire en m’imaginant que je ne parlais pas de moi. Le temps d’apprendre à écrire, une dizaine d’années, après quoi cette illusion s’est dissipée – car, bien sûr, on parle toujours de soi, mais le moi n’a pas à être une petite chose centripète et étriquée, c’est tout ce qui nous touche et nous traverse, des cercles sans cesse croissants qui s’élargissent à l’univers si on ose imaginer. Et avec la science-fiction (et ses genres cousins et cousines) j’ai pu oser. 

  Nick: Quels auteurs et quelles œuvres (romans, bandes dessinées, films, séries télévisées) vous ont le plus influencée en tant que fan avant de devenir auteur ? Et qu'est-ce qui vous a rapproché de la science-fiction et de la littérature de l’imaginaire en général ? 

E.V:  Comme je suis snob, je n’ai jamais été une fan :-). Une lectrice enthousiaste et assidue, oui. J’avais quinze ans lorsqu’un ami m’a prêté le livre de Louis Pauwels et Jacques Bergier, Le Matin des magiciens. Entre autres choses historiques et scientifiques stupéfiantes (et même parfois vraies) s’y trouvait cette déclaration choc : “La science-fiction est la seule littérature moderne”. Et comme c’était appuyé par des extraits de textes (outre Huxley et Orwell, bien sûr, il y avait Sturgeon, Simak, Clarke, Lem, Asimov, Stapledon, Lovecraft et Cie), j’ai été convaincue. Je me suis mise à écumer les librairies – presque rien là ? – et les librairies d’occasion... ah, bon, là il y en avait, traduits à la truelle parfois, mais lisibles, et je lisais pour les idées et le sense of wonder, bien sûr, à l’époque, pas pour l’écriture J’ai découvert la collection Présence du Futur, chez Denoël, et le Rayon Fantastique, et Marabout... Mais après un an d’obsession, je suis vite venue à bout de ce qui était disponible en français, et je me suis mise à chercher en anglais, d’autant qu’un vendeur de livres d’occasion, au marché hebdomadaire devant mon lycée, se trouvait vendre une collection complète de Fiction et de Galaxie, dont j’ai acheté tout ce que ma modeste tirelire permettait d’acheter – hélas, pas tout. J’y ai découvert quantité d’autres auteurs (et quelques autrices) anglais et américains : je savais désormais quels noms chercher en anglais (Aldiss ! Ballard ! Delany ! Cordwainer Smith !). Il y avait aussi des Français (Renard ! Klein ! Dorémieux ! Demuth !) Heureusement, l’année suivante, j’entrais à l’université (à Dijon) et la librairie universitaire était bien munie en livres anglais – Penguin Books, en particulier. Vous remarquez donc que l’essentiel de mes influences SF & Cie ont été littéraires (et masculines jusque dans les années 70 !). Pas de TV, on n’en avait pas chez moi, pas de films, très peu de bandes dessinées (Valérian, OK...). Certes, j’étais abonnée à Spirou, à Tintin et à Pilote – avant de découvrir qu’une partie de ce que j’aimais dans ces revues était de la SF, de la fantasy et du fantastique ! Ces termes, je ne les connaissais pas ; ça ne faisait pas partie de l’éducation des jeunes filles, de mon temps, surtout en cours classique... Je ne les ai découverts qu’en lisant Le Matin des magiciens. Je suis fascinée par la connaissance (au sens le plus large), dans tous les domaines, et par le mystère – celui de la soi-disant nature humaine comme ceux de l’univers tout entier. C’est dire qu’en découvrant la science- fiction (d’abord, et toujours plus que les deux autres genres), j’ai eu l’impression d’arriver chez moi. La SF est la littérature du questionnement – et je suis une curieuse invétérée ; c’est une littérature qui vous invite à sortir des boîtes de la pensée ordinaire – et je déteste les boîtes, sauf quand elles sont biodégradables une fois qu’on a trouvé ce qu’il y a dedans. C’est un grand genre poétique, de surcroît, la science-fiction – et j’ai été poète avant d’écrire de la fiction (je le suis toujours, d’ailleurs). Un peu plus tard, au cours des années 70, alors que je devenais de plus en plus consciemment féministe, j’ai compris l’immense puissance heuristique du genre, tout en découvrant toutes ces femmes qui écrivaient de la SF et de la fantasy provocantes, si peu traduites en français, et dont personne ou presque ne parlait. Le Guin, bien sûr, en 1969 – le grand choc de The Left Hand of Darkness, Le Guin, l’interlocutrice de toute ma vie, celle avec qui je n’ai jamais cessé d’entretenir une conversation littéraire et humaine depuis. 

 Nick: J'aimerais qu’on parle de vos débuts : votre arrivée au Québec depuis Paris, la direction de la revue "Solaris" et le premier congrès "Boréal", quand vous avez pratiquement créé (ou recréé) la science-fiction du Canada francophone, qui n'existait guère auparavant. Parlons de cette période, voulez-vous?

E.V:  Je suis arrivée au Québec par hasard – l’envoi de mon époux d’alors à l’université de Chicoutimi, dans le cadre d’un programme de coopération internationale. J’étais professeur titulaire dans un lycée bourguignon (NB : je n’ai jamais vécu à Paris, si j’y suis née), toute fraîche bardée de diplômes ad hoc (capèssienne et agrégée de lettres), mais en 1973 nous trouvions la France post- 68 particulièrement glauque. C’était donc une fuite, à l’aventure, vers le Nouveau Monde... que nous n’avions même pas choisi dans notre demande ! On a choisi pour nous, et la synchronicité a bien fait les choses : je suis tombée en amour avec le pays (très spécifiquement le Saguenay, où je vis toujours), lors du premier hiver passé là – c’étaient de vrais hivers, en ce temps-là, grandioses – soupir... Ça fera cinquante ans en 2023, et je n’ai jamais regardé en arrière. Je me considère comme une écrivaine francophone – et québécoise, pas française. En 1974, Sainte Chronicité m’a encore fait un cadeau, en me permettant de rencontrer le responsable (un autre émigré français) du fanzine Requiem, qui venait de naître. J’y suis bientôt devenue essayiste et critique, puis directrice littéraire officieuse, et j’y ai aussi publié mes premières nouvelles. J’ai continué quand la revue est devenue Solaris. Et j’ai en effet organisé le premier Congrès Boréal, en 1979, à Chicoutimi, à l’occasion duquel les amateurs (et quelques amateures) de genres – très dispersés sur tout ce vaste territoire – ont eu l’occasion de se rencontrer, commençant ainsi le processus de création du “milieu SF québécois”. Forte de mon expérience de directrice littéraire amateure, et tout en continuant à enseigner la littérature au niveau universitaire, j’ai aussi commencé à donner des ateliers d’écriture à cette époque-là, une entreprise que j’ai poursuivie, avec quelques éclipses, et qui dure encore. Deux générations d’écrivaines et d’écrivains sont passées entre mes griffes et ont survécu pour aller nourrir le corpus québécois des genres en publiant romans et nouvelles, la troisième génération est en train de commencer à sévir, et je n’en suis pas peu satisfaite, je l’avoue ! 

Nick: Vous êtes généralement connue comme la "Grande Dame de la science-fiction québécoise", cependant, au fil des années, beaucoup de vos œuvres ont été traduites en anglais. Si je ne m’abuse, l'une des premières traductions, si ce n'est la toute première, a paru dans les anthologies "Tesseracts". On le doit à la grande Judith Merril, Voudriez-vous partager avec nous vos souvenirs d’elle, voire nous donner votre opinion sur cette écrivaine ?

E.V:  J’avais rencontré Judith Merril d’abord à traversses textes, que ce soit sa nouvelle emblématique “That Only A Mother” ou ses préfaces pour des anthologies de SF “moderne” – elle a été très active dans ce domaine, en promouvant la “nouvelle vague” anglaise, en particulier. C’était une des rares (à l’époque) écrivaines de SF qui m’avaient fait comprendre que des femmes aussi pouvaient écrire de la SF pertinente pour des lectrices – avant Le Guin, je veux dire. Il y avait bien sûr Catherine Moore et Marion Zimmer Bradley (qui n’était pas controversée alors) mais elles s’inscrivaient toutes les deux dans un courant assez classique. Bref, Merril était pour moi une sorte de monstre sacré. Lorsque j’ai appris qu’elle vivait à Toronto, j’ai décidé de l’inviter au deuxième congrès Boréal à se tenir à Chicoutimi, en 1982, un gros congrès bien international. Et elle a accepté, ciel ! J’ai donc eu l’occasion de l’entendre et de lui parler de plus près – et aussi de la regarder danser pendant le party ; j’ai fermement décidé alors que je voulais être elle quand je grandirais. Nous avons cliqué. Le Silence de la Cité avait été publié en 1981, et il a gagné le prix Boréal en 1982, prix qui a été décerné lors du congrès. Nous nous sommes rencontrées de nouveau à plusieurs reprises – je suis allée à Toronto et à des congrès de SF au Canada anglais pendant les années 80 – et elle est devenue “Judith”. Par ailleurs, j’avais publié une petite nouvelle dans un recueil anglais, Twenty Houses of the Zodiac, en 1979, “Marée haute” (“High Tide”). Judith m’avait dans son colimateur comme écrivaine, je suppose. Et elle m’a en effet demandé un texte pour le premier des collectifs Tesseracts, en 1985. Je suis persuadée que sans cette vitrine inattendue, ma “carrière” en anglais, si brève ait-elle été, n’aurait jamais eu lieu. Dans la foulée, Le Silence de la Cité a été traduit, et j’ai publié ensuite plusieurs nouvelles dans divers Tesseracts et aux États-Unis. Et je n’aurais jamais rencontré Le Guin en personne, non plus, pour ce qui deviendrait une amitié épisodiquement épistolaire, au cours du festival littéraire Harbourfront de 1986, où il y avait toute une section sur la SF et les genres, et où Judith m’a invitée, avec mon excellente traductrice Jane Brierley, à lire un extrait de la nouvelle parue dans Tesseracts. Je dois énormément à Judith Merril, et je ne suis pas la seule. 

  

Nick: Pour rester dans ce domaine, si vos œuvres ont été souvent traduites, vous avez à votre tour traduit en français les œuvres de nombreux auteurs anglophones (dont Ian Watson, Guy Gavriel Kay, Tanith Lee et K. Kathryn Rusch). D'après votre expérience, la traduction enrichit-t-elle le texte original ou lui enlève-t-elle quelque chose ? Par ailleurs, lefait d'être vous-même une auteure vous a-t-il déjà conditionné d'une quelconque manière dans votre travail de traductrice ?

 Je ne suis pas une traductrice professionnelle, je n’ai pas suivi de cours. Je ne suis qu’une lectrice autrefois boulimiquement éclectique, qui a fait des études littéraires poussées en ayant la chance de ne pas être dégoûtée de la littérature par ces études :-), qui a enseigné en essayant de ne pas dégoûter ses étudiants, et pour qui comprendre le monde passe par les mots, par l’écriture. C’étaient mes seules qualifications en 1979, quand je me suis roulée aux pieds d’Élizabeth Gille, la directrice de la collection Présence du Futur, pour qu’elle me laisse traduire le roman de James Tiptree Jr, a.k.a Alice Sheldon, Par-delà les murs du mondes (Up the Walls of the World). Bon, à seize ans, pour mon propre plaisir, j’avais traduit un roman de John Wyndham, The Chrysalids, mais c’était tout ! Ma traduction de Tanith Lee (The Birthgrave) en 1976 pour Marabout n’a pas été publiée, que je sache (et j’avoue que les raisons, si je les ai jamais connues, en sont perdues dans les limbes brumeuses de ma Nimémoire-dentelle. Tout ce que je sais, c’est que j’ai été payée ! :-)). Mais après la traduction pour Denoël, et plus spécialement dans les années 80, où, séparée de mon mari, j’avais plus de difficulté à survivre matériellement, la traduction est devenue un gagne-pain d’appoint appréciable. Et même quand je n’écris pas pour diverses raisons et en suis frustrée, la traduction vient à mon secours : traduire, c’est encore écrire. Comme une traduction doit servir les textes au mieux, parfois, oui, dans des cas très spécifiques, et avec de longues conversations avec les auteurices qui n’ont parfois pas eu la direction littéraire appropriée, elle peut les améliorer plus que ponctuellement. Ça m’est arrivé une ou deux fois. Et puis, toute traduction est une adaptation, de toute manière – une interprétation ; au lieu de “traduit par”, on devrait mettre “interprété par”. En tout cas, le fait d’être écrivaine est certainement un atout pour la traduction. Ce peut-être un danger aussi – le danger de projeter son propre style sur celui des auteurices traduites ; mais c’en est un que j’ai rencontré très tôt et avec lequel j’ai donc appris à négocier très tôt aussi. [Pour la petite histoire : en traduisant les nouvelles de Ian Watson, avec lesquelles je me sentais tellement en résonance d’écriture que je me suis inquiétée – il m’a rassurée :-).]

  Nick:  Dans le roman "Le Silence de la Cité" (1981), la toute jeune protagoniste découvre que la plupart des personnes qui l'entourent sont des robots ou des êtres génétiquement modifiés, ce qui lui donne l'impulsion nécessaire pour affronter la vérité sur le monde dans lequel elle vit. Ai-je raison de penser que les thèmes de la recherche, de la découverte et de l'exploration sont récurrents dans votre oeuvre ?

 E.V:  Des êtres génétiquement modifiés ? Euh, pour moi ce sont des androïdes, hybrides d’organique et de mécano-électronique. Pardonnez-moi la rectification, je la fais toujours – je n’arrive à voir pas mes ommachs et femmachs dans le mot “robot”. Ce sont des corps d’emprunt, en fait, n’est-ce pas ? Actionnés pardes humains qui s’en servent en quelque sorte pour faire de la téléprésence. Alors, oui, (avec réticence :-)) “robots”. Mais par ailleurs, si la vie des humains en question a été artificiellement prolongée, le texte ne précise jamais de quelle manière – et les modifications génétiques n’étaient pas vraiment à la mode quand j’ai conçu tout ça, dans les années 70. Ce qui n’empêche nullement les lecteurices contemporaines de projeter leurs propres interprétations, bien entendu ! :-). Pour ce qui est de recherche /découverte /exploration, en tout cas, ce sont de toute manière des grands thèmes de la SF, hein ? Il y a eu convergence, là. Comme je le disais plus haut, mes plus grandes joies ont toujours été d’apprendre et de comprendre (ou de croire comprendre, parfois, mais la satisfaction est la même). Je pense fermement que la curiosité et l’ouverture à la nouveauté sont ce qui nous maintient souplement vivants. J’espère mourir curieuse, malgré tout.

Nick:   Peut-on dire que vos œuvres sont essentiellement des romans de formation et de croissance écrits en mode fantasy, uchronique ou de science-fiction ?

E.V:  À mon sens, l’uchronie est toujours de la science-fiction, même si elle feint d’être de la fantasy (je pense évidemment à mes deux cycles uchroniques, Reine de Mémoire et Les Pierres et les Roses) : ce n’est pas parce que les habitants du monde parallèle inventé interprètent comme de la magie ou des créatures surnaturelles les événements ou les créatures, parce que c’est leur vision de leur monde, leurs idéologies et religions, qu’ils le sont réellement. J’ai même sournoisement disséminé dans ces romans des indices permettant éventuellement à des lecteurices tordues de les lire comme de la SF ! Cela dit, ce que j’écris s’inscrit certainement bien dans la catégorie “roman de formation et de croissance”, puisque les personnages y apprennent et comprennent un certain nombre de choses essentielles pour eux, et accessoirement pour leur société.
 

 Nick:  Dans nombre de vos œuvres - je me réfère notamment à "Chroniques du Pays des Mères", de 1992, et au cycle "Reine de Mémoire" (2005-2007), vous abordez souvent le thème de la façon dont les mythes, les croyances et les religions interfèrent ou conditionnent (voire construisent carrément) notre perception de la réalité, du passé, du présent et du futur. Ma reconstruction est- elle erronée ? Si elle est correcte, d'où vous vient l'attention portée à ce sujet ? 

E.V:  Votre reconstruction est tout à fait valide :-). J’ai toujours été fascinée par la relation entre mensonge et vérité – la vérité de la fiction, tout ça. Un dyptique de mes recueils de textes brefs a pour titres : Vraies Histoires fausses et ... et Autres Petits Mensonges. Mes parents m’ont beaucoup raconté leur histoire–aventureuse et mouvementée pour l’une comme pour l’autre. Ils ont longtemps été pour moi des personnages de roman. Jusqu’à ce que je commence à soupçonner que cette histoire familiale était en fait aussi des histoires, les histoires que ma mère comme mon père se sont racontées toute leur vie sur leur vie. Il fut un temps où je résumais cela par “on m’a beaucoup menti”, et je leur en voulais, mais je me suis calmée depuis : comment ne pas avoir conscience que je fais, que chacun de nous fait, la même chose, tout le temps ? Nous nous racontons notre vie au moins autant que nous la vivons. Ces récits peuvent être une évasion, mais ils peuvent aussi avoir une valeur thérapeutique de protection, tout comme ils peuvent être prophétique : nous construisons notre vie en nous racontant, en imaginant, ses possibles – je l’ai fait trop souvent, et avec des résultats bien concrets, pour le nier. Pensez à la visualisation des sportifs, les skieurs alpins avant une course, par exemple... Il en va de même pour les sociétés, les cultures. Ces histoires collectives nourrissent, entretiennent la cohésion sociale – elles peuvent tuer, aussi, elles tuent, beaucoup... On a beaucoup dit à la fin du XXe siècle que c’était, sinon la fin de l’Histoire (!) du moins la fin des “grandes histoires”, des idéologies politiques ou religieuses qui sont les grandes histoires collectives de l’Occident. Aimable illusion. Elles sont plus vivantes que jamais, elles se sont transformées, c’est tout. Comme le dit la science-fiction, après Héraclite : il n’y a que le changement qui ne change jamais. L’être humain ne peut pas vivre sans histoires, les sociétés qu’il crée non plus. Je ne sais pas si les animaux se racontent des histoires – c’est bien possible, et ce serait merveilleux de les apprendre –, mais je suis tout à fait d’accord avec la description qui dit : “l’être humain est un animal qui (se) raconte des histoires”

 Nick: J'aime beaucoup le personnage de Lisbeï dans "Chroniques". Voudriez-vous la présenter aux lecteurs italiens qui ne la connaissent pas encore ? 

E. V:  Je vais faire un Flaubert : Lisbeï, c’est moi :-) Mais tous mes personnages sont moi, une de mes facettes (incluant les “vilaines” et “vilains”). Parfois je le souligne plus délibérément, comme ici (Lisbeï/Élisabeth). Je n’en ai pas toujours eu conscience. C’est seulement dix ans après la publication de Le Silence de la Cité que des étudiants rencontrés dans un collège m’ont fait remarquer que “Élisa” (la protagoniste principale) et “Élisabeth”, ça se ressemblait un peu beaucoup. Je suis tombée des nues ! J’avais des raisons tout à fait logiques et cohérentes, à l’intérieur même de mon intrigue, d’appeler le personnage ainsi ! Puis j’y ai vu la confirmation concrète de ce que je considérais auparavant d’un point de vue théorique : dans la fiction, les noms et même prénoms des personnages ne sont jamais, (ne doivent jamais), être innocents – aléatoires. Par ailleurs, j’ai compris à quel point je me projetais dans mes personnages, et quelle synergie il pouvait y avoir entre mon prénom, dans ses deux premières syllabes (Eli), le féminisme dans lequel je m’inscrivais (elle/il) et mon fantasme de créatrice (“Eli” est Dieu, en hébreu). Ohlala ! Revenons à Lisbeï. C’est bien sûr le personnage-type du roman de formation dont nous parlions plus tôt, et d’abord la formation des lecteurices, puisque Lisbeï leur sert de guide dans le monde que j’ai créé – c’est pour ça que je l’ai prise presque au berceau. C’est celle qui apprend, comprend et par qui (entre autres) le changement arrive. Mais pour moi, Lisbeï n’existe pas toute seule. Depuis le début – et j’ai commencé à imaginer ce monde et ces histoires en 1978 – c’est Lisbeï-et-Tulla, sa demi-sœur, (ce qui complète assez l’anagramme de mon prénom !) Tout cela est né d’un de mes “rêve SF” (je suis une rêveuse, et j’ai des catégories...) où deux jeunes filles étaient liées d’un amour extrêmement puissant dans un univers assez barbare et sauvage. On lit beaucoup Chroniques comme un roman féministe, une réflexion sociale, écologique, politique, et tous ces registres s’y trouvent – mais le roman que j’ai écrit, celui que je lis, moi, quand je relis Chroniques, c’est l’histoire de la découverte et de l’acceptation de l’Autre. Dans le registre féministe, certes, c’est la reconnaissance et l’acceptation du l’humanité du masculin par la culture de Lisbeï – et par Lisbeï pour commencer. Mais plus en profondeur, à cause d’une des conséquences de la mutation secrète qu’elle partage avec Tulla, laperception et l’émission des sensations/émotions, Lisbeï a beaucoup de mal à sortir d’une relation trop fusionnelle avec Tulla, alors que Tulla essaie de s’en tirer pour exister à part entière. Tulla, pour Lisbeï, c’est la Même, “celle qui est comme moi” – l’illusion de la ressemblance qui est nécessaire jusqu’à un certain point, mais dont on doit se dégager pour vraiment voir et commencer à communiquer avec l’Autre. Comme je disais dans une de mes chansons – puisque j’ai été chansonnière :-) –, “c’est la distance entre nos corps qui leur permet de se toucher”. Pour moi, ce n’est pas Lisbeï, mais la relation problématique entre Lisbeï et Tulla qui est le moteur de toute l’intrigue.

 Nick:  Le thème religieux revient dans le cycle "Les Pierres et les Roses". Votre version du christianisme au féminin m’intrigue. Voulez-vous bien nous introduire à ce cycle ? 

E.V: L’univers de Les Pierres et les Roses est parallèle à celui de Reine de Mémoire, publié au début des années 2000. Ce sont des uchronies toutes deux situées en Europe, mais la première (RdM) se déroule entre un XVIe siècle et le début d’un XIX siècle, alors que la seconde (P&R) se situe dans un Moyen-Âge également inventé. Elles procèdent toutes deux de mêmes points de divergence avec notre univers : d’abord il y existe des capacités humaines interprétées comme de la magie, les “talents”, et ensuite cette magie est inscrite et incluse dans un système religieux cohérent : la source en est les Gémeaux, enfants de la Divinité qui les a faits naître sur terre pour la transformation salvatrice des êtres humains via ces capacités et leur relation au “Surmonde”, consubstantiel au nôtre, qui les permet. En bref, Iéshu-Jésus a une sœur jumelle, Séphora-Sophia, il meurt sur la croix (pas pour les péchés des humains), et c’est Séphora qui fonde la religion géminite. Il n’y a pas de “christianisme au féminin” dans ce monde, pour moi :- ). Le christisme est la religion d’une petite secte dissidente et intolérante qui a refusé à la fois la “magie” et la place de Séphora (et des femmes) dans le mouvement géminite. Les Christiens brûlent les “talentés” et les “talentées”... RdM se déroule entièrement dans la partie géminite de l’Europe (en gros le sud, mais aussi les “Atlandies”, qui est le nom donné aux continents découvert à l’Ouest au XIIIe siècle...), les Christiens sont très périphériques dans l’intrigue et les Géminites se voient essentiellement comme les Bons. J’avais envie de nuancer... Et donc, un des personnages humains principaux de P&R est issus de la partie christienne du monde (la Bretagne, en l’occurrence), mais l’autre est une Judaïte secrète (les Juifs appartiennent à une autre religion dans ce monde ; j’ai dû refaire toutes les religions du Livre... et en fin de compte, le monde au complet !) et le troisième personnage humain... est encore autre chose. Cependant, comme ils sont tous extraits de leur culture d’origine pour se retrouver en Géminie, ils ont ou acquièrent tous un point de vue critique sur les deux religions (et les autres, du reste). Ce n’est évidemment pas le sujet principal de P&R, pas plus que celui de R&M, c’est seulement l’arrière-plan, le monde où les personnages vivent leur histoire, mais c’est le monde qui les a façonnés. L’intrigue, dans les deux cycles, c’est beaucoup de mystère(s), des aventures, des grandes amitiés et de grandes amours menant ou pas à des tragédies familiales ou collectives, et – encore – des apprentissages. 

 


Nick:   Une question plus générale : comment créez-vous vos personnages ? Est-ce vous les planifiez avant d'écrire ou les construisez-vous et les faites-vous évoluer petit à petit, en fonction des besoins de l'intrigue ?

  E.V:  J’ai déjà en partie répondu à cette question, en filigrane. Mais ce ne sont quand même pas des noms d’abord – en général, quand une histoire me vient, c’est presque tout de suite “des personnages dans un décor, en train de faire quelque chose” : la personne vient avant le nom, son ambiance, parfois son genre, qui demeure cependant souvent sujet à modification. Je remue-méninge beaucoup mes histoires, et souvent pendant très longtemps (P&R avait commencé près de dix ans avant RdM dont la première conception date de 1998 – c’est seulement quand j’en ai croisé l’intrigue avec l’arrière-monde de RdM que l’histoire a vraiment pris son essor), et je me pose d’abord systématiquement la question : ce personnage doit-il absolument être une femme/un homme/autre ? Et donc, oui, je “planifie” avant d’écrire, que ce soit les personnages ou les intrigues – et puis, c’est un prérequis de la construction de monde. Mais ça n’a rien de rigide. Toute la phase du remue-méninges (que j’adore : c’est un univers de possibles...) est un vaste mouvement chaotique où tout est muable et retentit surtout : on change ci... alors ça va changer ça... est-ce mieux ? oui... non... et si... ? ou bien... ? Et même si j’ai donc une très bonne idée de l’évolution des personnages quand je me mets (enfin) à l’écriture, il n’en reste pas moins qu’il y a toujours des surprises quand on écrit, sinon, où serait le plaisir ? Et la relation entre les personnages et l’intrigue est réciproque : ils font évoluer l’intrigue parce qu’ils évoluent psychologiquement et vice versa.

  Nick: Une question encore plus générale : j'aimerais connaître la situation, de votre point de vue, de la science-fiction franco-canadienne. Je me rends compte que le sujet est complexe, non seulement en raison de la proximité avec les États-Unis, parfois osmotique, parfois phagocytante, mais aussi en raison des relations et des influences de la science-fiction française. J'aimerais avoir une description générale de ce que sont, à votre avis, les particularités et les points forts de la science-fiction franco-canadienne. Et aussi, quels en sont les auteurs les plus représentatifs ? Vous êtes connue chez nous, tout comme Jean-Louis Trudel, Yves Meynard et quelques autres, mais quels sont les noms et les œuvres que vous considérez les plus représentatifs ? Quelles sont les différences avec les productions américaines et françaises ? 

E.V:  Vous décrivez très bien la relation de la SFF américaine avec... toutes les autres SFs nationales. Même les auteurices brittaniques, qui ont quand même une langue plus ou moins en commun avec les États-Unis, éprouvent des problèmes à se dégager, alors, vous pensez, les SFs non anglophones ! Que ce soit au plan professionnel (publication rendue encore plus difficile par la barrière de la traduction) ou au plan littéraire (les influences). Quelqu’un a dit quelque part – en anglophonie – que même si c’est sans doute regrettable, si on n’écrit pas ou du moins ne publie pas en anglais, on n’a aucune chance de participer à la construction collective des genres SF et fantasy ni d’appartenir au fameux corpus canonique. C’est toujours tristement vrai et le restera, pour diverses raisons aussi bien commerciales que culturelles dans lesquelles je n’entrerai pas ici. Ça n’a évidemment rien à voir avec la qualité des ouvrages.Si on aborde maintenant la question de la relation des SFs non anglophones entre elles lorsqu’elles parlent la même langue, en l’occurrence le rapport de la SF québécoise à la SF française, eh bien, c’est pas mal la même chose en plus petit qu’entre l’Angleterre et les États-Unis... ou le Canada anglais entre l’Angleterre et les États-Unis – de ce point de vue commercialo-culturel, il y a beaucoup de parallèles entre le Québec et le Canada anglais (NB : on l’appelle aussi ROC : “Rest of Canada”); et on pourrait en dire autant de la SF suisse, belge, franco-africaine... Le protectionnisme commercial et culturel existe partout, avec les mêmes préjugés. Mais je dirais que la SFFQ, comme nous l’appelons affectueusement [science-fiction et fantastique québécois], est plus influencée par le corpus anglophone que par le corpus francophone, même si ça a un peu changé dans les deux dernières décennies, de ce point de vue.Si on aborde maintenant la spécificité des unes par rapport aux autres.... “Spécificité”, c’est un terme qui a beaucoup été utilisé chez nous dans les années 80 et 90, au point de devenir un mème ironique, au moment où la SF et la fantasy québécoises prenaient vraiment leur essor et où nous nous interrogions sur ce qui nous distinguait éventuellement des États-Unis, de la France et du Canada anglais, sur le plan des thèmes et des façons de les traiter. À cette époque, nous avons pris conscience ce qui nous rapprochait de la SF du ROC : au lieu des héros à la compétence triomphante de la SF américaine classique, nous avions beaucoup d’anti-héros ou de héros réticents ; à la place du scientisme galopant, une position critique envers les technosciences ; et une relation différente à la nature, qu’on maîtrise ou écrase de diverses manières dans les classiques américains, mais qui est bien plus féroce et indomptée dans nos textes à nous. Cependant, quand on lit assez de textes, on se rend compte que ce sont des traits bien plus largement partagés – et à l’intérieur de la SF états-unienne même, de la SF anglaise, ou de la SF française, pour ne prendre que ces exemples. Le genre est une création collective, dont les thématiques ou les visions du monde transcendent souvent les structures nationales. Il serait sans doute plus fructueux de situer les auteurices, individuellement, dans les grands courants thématiques, idéologiques qui traversent le monde – par rapport au colonialisme, par exemple, par rapport aux sciences, à l’écologie, au féminisme, aux systèmes politico-économiques, etc. On se rend compte alors que le spectre des productions de genres est extrêmement varié à l’intérieur même d’une culture nationale – ce en quoi elles ne sont guère à distinguer de la littérature non genrée – et la question de la spécificité se dilue dans le flou ! Les auteurs les plus représentatifs de la SF franco-canadienne seraient justement un bon exemple de cette diversité, à mon avis : même si Yves Meynard et Jean- Louis Trudel, que vous citez, sont traduits en anglais, ils n’ont pas grand-chose en commun avec une Esther Rochon (dont au moins un roman a été traduit en anglais) ou une Sylvie Bérard. Alain Bergeron non plus, ni Jean-Pierre April, ni Daniel Sernine... ni moi ; et il en va de même pour la troisième génération d’auteurices. Certes, on peut trouver chez les unes et les autres, et on y a trouvé, des échos de ces grands courants mondiaux ou de ces éventuels caractères “canadiens” que j’évoquais plus haut, mais chacune et chacun les traite à sa façon. Je ne vous cite pas d’œuvres en particulier ; en cette époque googuelisante, un peu de curiosité active ne fait pas de mal :-).)

 Nick: Au niveau international, quels auteurs suivez-vous avec plus d'attention et d'intérêt ?

E.V:  Je dois avouer que, ces dernières années, pour des raisons relativement indépendantes de ma volonté, j’ai pas mal cessé de lire. Mais je m’y remets ! En anglophonie, je dirais, en vrac : des “anciens”, John Crowley, Christopher Priest, Kim Stanley Robinson, et des “nouveaux” – et nouvelles : Ted Chiang, Ken Liu, Aliette de Bodard, Ann Leckie, Becky Chambers... Et la SFF non-occidentale (asiatique et afrofuturiste, en particulier). En français, je suis les valeurs sûres : Dunyach, Paquet, Laîné, ou les nouvelles : Sabrina Calvo, par exemple... Et récemment Lucazeau. En tout cas, c’est ce qu’il y a dans ma PAL. J’ai pris tellement de retard que, lorsque je vais visiter des sections de livres de genres en ligne, je ne connais pas 95%, voire 98%, des noms cités, chez les non- francophones !

  Nick:  Je vous propose un jeu : si vous deviez conseiller une de vos oeuvres à quelqu'un qui n'a rien lu de vous, laquelle lui recommanderiez-vous ? Quels romans, quelles nouvelles ? Si vous le souhaitez, parlez-nous des personnages particulièrement chers à votre cœur. 

E.V:  C’est un jeu cruel pour une écrivaine ! Mais on peut commencer par Le Silence de la Cité et/ou Chroniques du Pays des Mères (ils vont ensemble). Ou bien, si on veut échantillonner les thématiques et ne pas s’appuyer un roman entier (Le Silence est relativement court, mais Chroniques fait plus de 400 pages), il y a des recueils de nouvelles, le premier, par exemple, La Maison au bord de la mer. Maintenant, des personnages chers à mon cœur... mais ils le sont tous !!! Il y en a quand même un, dans la saga de Tyranaël, qui m’est très chère – après tout, c’est le roman que j’ai commencé à seize ans, écrit et réécrit maniaquement pendant quinze ans et finalement publié trente-quatre ans après son inception. J’ai appris à écrire avec, il m’a tenu compagnie pendant mon adolescence et ma jeune adulteté, qui n’étaient pas très gaies ni l’une ni l’autre, j’ai vécu – je me suis réfugiée – pendant tout ce temps dans ses paysages, avec sa faune, sa flore et ses personnages : comment ne serait-il pas “le plus cher à mon cœur” ? Le personnage est l’un des trois personnages principaux du tome IV, L’Autre Rivage, il s’appelle Lian, et ensuite Liam (il doit changer un peu de nom). Mal adapté dans son monde natal, il l’est tout autant sur “l’autre rivage“, l’autre monde où il se retrouve sans l’avoir vraiment voulu. Il a subi de terribles traumatismes, mais il s’essaie à une deuxième vie, qui ne sera pas moins traumatisante d’abord, (mais ça finit bien :-)) ; et c’est un écrivain : il présente sous formes de contes inventés la faune et la flore de son pays d’origine. Un écrivain, une personne entre deux mondes, et la vérité du mensonge, tout ça, hein ? Quand je vous disais que je me projette dans tous mes personnages !

 Nick:   Projets futurs : sur quoi travaillez-vous actuellement et que pouvons-nous attendre d'Elisabeth Vonarburg dans un avenir proche 

E.V:   Élisabeth Vonarburg commence à être pas mal blanchie sous le harnois, elle fatigue. Les cinq dernières années ont été particulièrement éprouvantes, avec la Catastrophe qui se dessine de plus en plus clairement à l’horizon proche, (et que, comme toutes celles et ceux qui souffrent de la mentalité SF, je vois venir depuis... très longtemps – les années 70, en ce qui me concerne) ; et puis les années Trump, et la pandémie.... Bref, mon dernier quart de siècle ne s’annonce pas très joyeux, et je dois confesser que ça tarit pas mal les jus créatifs. J’ai réussi à terminer et publier mon dernier roman (Les Pierres et les Roses) en 2017-2018, de justesse, parce que je commençais à vraiment en arracher à ce moment-là. Mais après... Silence radio. Une nouvelle sur thème imposé (un futur possible de ma région) m’a pris tout 2020 à pondre, un minuscule 38 pages, c’est dire ! Je devais écrire un autre roman, de la science-fiction pure et dure, j’y ai travaillé avec obstination pendant tout 2019, mais le monde me rentrait dedans chaque fois que j’ouvrais l’internet (je ne lis plus les journaux, je n’écoute pas la radio, facebook me sert de filtre – pas assez, de toute évidence), et je n’en suis pas venue à bout à ma satisfaction. L’arrière-monde très détaillé que j’ai construit pour ce roman m’a cependant servi pour une novella, “Une histoire d’Ikuatèn”. Le sens du mot “novella” est “petit roman” en anglais, et ce texte en est un, à 150 pages ! Ça a été publié au Québec, dans un collectif, Échos du Centaure. Et je suis en train de mâchonner une autre novella dans le même monde – j’en suis à la phase du remue-méninges, je veux dire, pas de l’écriture.

 Nick:    Eh bien Elisabeth, nous sommes arrivés à la fin. Au moment de vous dire au revoir et de vous remercier à nouveau, je voudrais vous poser la question classique de Nocturnia à la fin : y a-t-il une question à laquelle vous auriez voulu répondre, un sujet dont vous auriez aimé parler et que je n'ai pas abordée ?

Elisabeth Vonarburg:  Les ateliers d’écriture. J’en suis une adepte fervente, parce que je sais tout ce que j’ai appris et continue à apprendre en animant les miens, depuis 1979. Ne pas écrire seule, avoir des retours sur ce qu’on écrit (qui ne soient pas ceux des parents ou des amis myopes), être obligée d’écrire parfois sous pression et se rendre compte qu’on en est capable, sortir de ses zones de confort, apprendre en voyant comment écrivent les autres.... Tout cela est extrêmement formateur. Il y faut bien sûr une bonne dose d’humilité et le désir réel d’apprendre plutôt que de jouer à écrire (ce qu’on fait hélas dans beaucoup de prétendus ateliers d’écriture), mais la récompense vaut mille fois l’effort. On me demande parfois quel est mon livre préféré, ou celui dont je suis la plus fière, et je réponds toujours d’abord Comment écrire des histoires, le bouquin que j’ai publié sur l’écriture en 1986. On trouvera peut-être bien arrogant que j’utilise votre dernière question pour faire de la publicité à ce livre, mais c’est le seul des miens pour lequel je le fais sans aucune vergogne, car il a été réédité quatre ou cinq fois depuis, toujours avec un accueil plus que favorable de la critique (la dernière mise à jour est en 2013) et pour moi il est ainsi validé par les générations successives qui en ont été nourries, que ce soit dans les institutions d’enseignement, les ateliers d’écriture hors-école ou pour les simples autodidactes. Il a servi et il sert à quelque chose, et des lecteurices m’en assurent tout le temps. Que mes fictions servent à quelqu’un d’autre que moi, c’est nettement plus incertain...

12 commenti:

Ariano Geta ha detto...

Un'intervista molto corposa e interessante. Come dilettante della scrittura, ho capito bene cosa intendesse quando ha parlato di scrittura non per raccontare se stessi ma per evaderne, anche se poi si finisce comunque per parlare di se stessi sotto mentite spoglie.
Interessante anche il riferimento ai laboratori di scrittura come elemento per sviluppare le proprie capacità.

Nick Parisi. ha detto...

@ Ariano Geta
Elisabeth Vonarburg crede molto nel potenziale dell'insegnamento, non a caso ha formato lei almeno due generazioni di scrittori canadesi e non solo.
Un grande abbraccio.

Mariella ha detto...

Ho letto con estremo interesse la bella intervista che hai realizzato. Naturalmente non conoscevo la scrittrice ma la curiosità di leggere qualcosa di suo, si è fatta forte. Ad un certo punto volevo chiederti da cosa cominciare ma è stata molto esaustiva lei, per cui mi sono appuntata Chroniques du Pays des Mères, che cercherò in biblioteca. Peccato leggere che sia un po' stanca ma è comprensibile, questi ultimi due anni hanno messo a dura prova tanti di noi. Interessante il punto sui laboratori di scrittura, mi piacerebbe seguirne qualcuno ma non saprei cosa scegliere. Grazie Nick per questo bel regalo che hai fatto a tutti i tuoi lettori. Un grande abbraccio.

Nick Parisi. ha detto...

@ Mariella
La stanchezza è comprensibile, io la capisco. Considera che se non ci fosse stata lei ( assieme ad altri certo) non ci sarebbe nemmeno stata una produzione fantascientifica del Quebec. Grazie a te per aver apprezzato. Ricambio volentieri l'abbraccio.

Caterina ha detto...

Trovo questa intervista veramente bella. Ha destato in me il desiderio di leggere la scrittura di questa autrice. Ammetto che per anni non sono stata attratta dal genere fantasy, ma negli ultimi tempi l’ho rivalutato e ho capito che mi sono persa un vero e proprio mondo letterario. Ti faccio i miei complimenti perché hai realizzato un’intervista davvero interessante e genuina. Buona giornata.

Nick Parisi. ha detto...

@ Farfalle Libere
Commenti come il tuo mi ricordano il perché amo tanto bloggare, mi hai reso felice.
Grazie di cuore.

Mariella ha detto...

Buongiorno Nick. C'è un premio che ti aspetta da me💛

Daniele Verzetti il Rockpoeta® ha detto...

Una scrittrice molto interessante, penso che comprerò un suo libro se esistono in italiano e pensavo a"Le Silence de la Cité" (1981) per esempio. Mi stupisco , a meno che non ne sia io a conoscenza, che dai suoi libri non si siano mai tratti dei film perchè ce ne sono molti che si presterebbero benissimo .

Nick Parisi. ha detto...

@ Mariella
Ho letto. Grazie davvero, bellissimo regalo. 👍❤️👍

Nick Parisi. ha detto...

@ Daniele Verzetti il Rockpoeta
Di Elisabeth Vonarburg purtroppo è stato tradotto pochino (quasi nulla) nella nostra lingua. È il destino comunque un po'di tutta la fantascienza francofona, perfino Il mio amico Jean-Claude Dunyach che è l'autore di fantascienza francese più tradotto al mondo da anni fa fatica va pubblicare qui da noi.

SamSimon ha detto...

Wow! Super interessante questa intervista, piena di riferimenti letterari davvero ottimi. Certo che se a 16 anni aveva già tradotto un romanzo, il dono della scrittura ce l'aveva per forza... Non ho ancora letto niente di lei, ma spero di rimediare prima o poi!

Nick Parisi. ha detto...

@ SamSimon
Verissimo! Il dono della scrittura o lo si ha oppure manca, nel caso della Vonarburg si vede che questa capacità l'ha sempre posseduta.

Ricordando il passato

Ricordando il passato
 
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