Buon pomeriggio a tutti!
Qualche mese fa mi fu chiesto di preparare per l'ottimo sito TrueFantasy una intervista con lo scrittore italiano Alessandro Vietti, richiesta che accettai volentieri, sia perché chi me lo chiedeva (e cioè l'amico Alessandro Iascy, il curatore di TrueFantasy) è una persona molto gentile ed è un vero appassionato, sia perché Vietti era uno di quegli scrittori che desideravo intervistare da tempo.
L'intervista riscontrò un buon successo e dio sono molto felice della mia collaborazione con TrueFantasy, però- come sapete- la casa delle interviste del Buon Vecchio Zio Nick è e rimarrà sempre Nocturnia.
Per questo oggi ripubblico l'intervista, in una sorta di versione Reloaded. Ho chiesto infatti a Vietti di rispondere a cinque ulteriore domande (le riconoscete facilmente grazie al cambio di colore) ed Alessandro ha aderito con entusiasmo.
Quindi ecco a voi l'Intervista Realoaded con Alessandro Vietti!
Attendo le vostre impressioni.
Nick: Ciao Alessandro. Benvenuto! È un piacere averti ospite. Come prima domanda ti chiedo di presentarti ai nostri lettori e di parlarci del primo momento in cui hai deciso di diventare uno scrittore.
Alessandro Vietti: Ciao Nick e grazie a te a Nocturnia per l’ospitalità. Devo dire che per me non c’è stata alcuna decisione del genere. Anzi, era una cosa molto distante dal mio orizzonte. Peraltro credo che decidere di diventare scrittore e diventarlo sul serio, siano due cose distanti tra loro anni luce, come peraltro credo valga per molte aspettative della nostra vita. Nella maggioranza dei casi, quella di scrivere narrativa è una cosa che a un certo punto, in genere dopo che hai letto molto e ti sei appassionato a un certo tipo di storie, decidi di provare a fare e scopri che in qualche modo ti riesce ma, soprattutto, ti dà soddisfazione. E allora pensi che valga la pena continuare. Pubblichi le prime cose. Ne pubblichi altre. Poi ogni tanto provi ad alzare l’asticella, provi a passare dal racconto al romanzo, provi a passare dalla fanzine alla pubblicazione professionale, e qualche volta ti capita di non farla cadere, l’asticella. Il salto riesce. Così vai avanti, cercando di fare sempre qualcosa di più, qualcosa di meglio, mettendoti continuamente alla prova, aumentando la difficoltà della scalata. Insomma, non decidi di diventare “scrittore”, né lo diventi. Succede solo che a un certo punto ti ritrovi ad aver pubblicato un po’ di cose. E a un dato momento sono gli altri che cominciano a definirti così. Personalmente, non mi ci definisco e in genere cerco di dissuadere gli altri dal farlo. Pensarmi “scrittore” mi fa, semplicemente, sorridere. Gli “scrittori” sono altri. Al massimo chiamatemi autore.
Nick: In particolare cosa ti ha avvicinato alla fantascienza e quali sono stati gli scrittori ed i romanzi che ti hanno formato maggiormente come lettore prima ancora che come scrittore?
Vietti: Secondo te, quando ti capita di vedere Guerre Stellari al cinema a otto anni, come ne esci? La mia prima fantascienza, quella che mi ha nutrito fin dall’adolescenza, è stata innanzitutto televisiva e cinematografica. Parliamo, appunto degli anni ’70, primi ’80: roba tipo Star Trek, Ufo, Spazio 1999, Star Wars, Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo, E.T., in quello che, a ben pensarci, è stato forse uno dei momenti migliori per la fantascienza sia sul grande che sul piccolo schermo e passarci dentro a quell’età qualcosa dentro le tue cellule, come per osmosi, te lo lasciava ogni volta. Poi c’erano anche i fumetti, Marvel in testa. Ricordo con nostalgia la caccia alle varie uscite, soprattutto dell’Uomo Ragno e dei Fantastici Quattro.
Una passione un po’ a tutto tondo, la mia, insomma, comunque sorretta da una base di grande interesse per tutto ciò che concerneva lo spazio, che non so se sia stata una conseguenza o una causa. In effetti è un po’ un mistero, perché non c’era nessuno in casa da cui avrei potuta recepirla. A volte mi piace pensare che a cambiarmi per sempre sia stato nascere proprio nel marzo del 1969 e trovarmi lì, quattro mesi dopo, insonne nel mio passeggino a ciucciarmi i piedi, a guardare Neil Armstrong fare quel grande passo per l’umanità. La letteratura invece l’ho scoperta un po’ più tardi, nella tarda adolescenza, insieme con la passione per la lettura, purtroppo consolidatasi in occasione di un periodo molto difficile della mia vita. Mia madre fu colpita da una malattia molto grave e in quei mesi questo mondo era troppo brutto da sopportare, così ho avuto bisogno di scappare, andare altrove, il più lontano possibile. Alla fine lei se n’è andata e la mia passione per la fantascienza e per la lettura è rimasta e, anzi, è evoluta e divenuta sempre più importante nell’economia della mia vita. Quanto alla scelta dei testi, la mia inclinazione verso le materie scientifiche, condita dalla passione per l’astronomia, sono state il filtro primordiale. Dunque fu abbastanza naturale che iniziassi col prediligere soprattutto gli scienziati: Asimov e Clarke su tutti, in quella che forse, però, è una “educazione fantascientifica” piuttosto comune a molti, a quell’età e in quel periodo.
Nick: Tu hai una formazione scientifica, sei laureato in ingegneria elettrotecnica e lavori per l’Ansaldo Energia. Quanto è importante, secondo te, possedere un background scientifico, per poter scrivere una fantascienza credibile? Soprattutto in un paese come l’Italia in cui sopravvivono ancora tanti luoghi comuni sul genere e sui suoi scrittori…
Vietti: La storia della fantascienza sta lì a dimostrarci che la preparazione scientifica non è così importante come si può pensare. Pensa, per dire, solo a Bradbury, Ballard e Dick. Sono convinto che dipenda più che altro dalla propria sensibilità, dal personale livello di soglia di sospensione della credulità e, infine, ovviamente, dalle capacità letterarie di ciascuno. In Italia i luoghi comuni sul genere hanno una radice complessa e diversificata. Credo che un po’ derivino dalla diffidenza atavica nei confronti della letteratura di intrattenimento made in Italy (ma che ormai da qualche anno è in remissione), un po’ dalla povertà della cultura scientifica in Italia, per lo meno negli anni in cui la fantascienza è cresciuta e divenuta grande negli USA, un po’ dalla carenza di personalità e situazioni capaci di promuovere il genere in Italia e i suoi scrittori.
Nick: Ecco, questa domanda è conseguente alla precedente: Fantascienza in Italia e Fantascienza Italiana un binomio non sempre facile, secondo te perché?
Vietti: A mio avviso sono due aspetti che vanno distinti e per i quali ci vorrebbe molto spazio, e magari un dibattito, per cercare di snocciolare qualcosa di compiuto. Cercando di farla breve, senza nel contempo semplificare troppo: da un lato in realtà la fantascienza in Italia è un genere che a tratti è stato anche piuttosto popolare, per quanto popolare possa essere mai un genere in un paese che ha sempre avuto qualche allergia nei confronti della lettura. Penso al successo di Urania, che per molti, molti anni ebbe due uscite mensili con tirature di tutto rispetto, e delle sontuose pubblicazioni della casa editrice Nord tra gli anni ’70 e ’80, con due collane belle e ricche come Cosmo Oro e Cosmo Argento. Le librerie avevano un discreto assortimento e si trovavano molte traduzioni. Insomma, per essere l’Italia che leggeva (e legge) poco, almeno dal punto di vista editoriale la fantascienza in Italia la sua piccola golden age l’ha avuta. Una situazione che però, a mio avviso è andata deteriorandosi globalmente quando, a partire dagli anni ’90 fino a oggi, è venuta a crollare la visione del futuro e la tecnologia ha invaso il nostro presente fantascientifizzando la nostra realtà. Dall’altro, poi, come accennavo anche prima, la fantascienza italiana è invece sempre stata in affanno soprattutto per colpa della mancanza di situazioni e personalità capaci di promuovere il genere in Italia e con questo intendo sia rispetto alla formazione degli autori, che al gusto dei lettori. Non abbiamo avuto né l’equivalente delle riviste Pulp, per intenderci, ma neanche alcun John W. Campbell o Hugo Gernsback. Anzi, chi nel momento storico più favorevole aveva il potere di farlo, ebbe a dire che un disco volante non poteva atterrare a Lucca, spegnendo così ogni potenziale velleità e facendo così molto male a un intero movimento culturale. È peraltro evidente che un’affermazione del genere non può essere ritenuta casuale o frutto di una contingenza momentanea, ma è figlia di una ben precisa visione culturale, quella in cui si è ritrovata l’Italia del secondo dopoguerra, troppo legata a una tradizione “letteraria” (alta?) che aborriva qualsiasi tentativo di deviare nei generi, se non in rarissimi casi per i quali però quelle parole (fantascienza, fantasy, horror ecc.) erano comunque tabù. Penso a Calvino, a Buzzati, a Landolfi, tanto per citare tre dei maggiori esponenti.
Nick: Veniamo all’Alessandro Vietti scrittore, se non ricordo male, tu hai cominciato a scrivere professionalmente attorno al 1993, facendoti notare grazie alla tua partecipazione ai vari concorsi letterari e grazie a racconti. In particolare ricordo lo splendido “Daneel” apparso sulla scomparsa “L’Eternauta”. Vorrei che ci parlassi di quel racconto e delle tue sensazioni quando lo vedesti pubblicato.
Vietti: Daneel nacque come mio personale omaggio ad Asimov, la cui morte avvenuta nell’aprile del 1992 mi aveva colpito molto. Ricordo che lo scrissi e lo mandai (per lettera) alla redazione dell’Eternauta i cui racconti all’epoca erano selezionati da Gianfranco De Turris. Ricordo che De Turris mi rispose non molto tempo dopo a sua volta con una lettera molto incoraggiante, dicendo che il racconto era buono, ma non abbastanza per essere pubblicato.
E mi diede qualche consiglio. Se ci avessi rimesso le mani sopra e lo avessi migliorato, lo avrebbe pubblicato. Quindi, insomma, la sua risposta fu confortante: ci lavorai su e rispedii il racconto, cui avevo aggiunto tutta la parte centrale. Lui ne fu entusiasta e lo pubblicò. In effetti il racconto era molto migliore. Così, oltre all’emozione di vedere il primo racconto pubblicato su una pubblicazione professionale prestigiosa come L’Eternauta, in una volta sola imparai due lezioni molto importanti: (1) lavora sempre duro su quello che hai scritto senza affezionartici e senza aver paura di tornarci sopra e (2) sii umile e dai sempre retta agli editor: probabilmente vedono qualcosa che tu non stai vedendo.
Nick: In seguito arrivano anche i romanzi, nel 1996 arriva “Cyberworld” pubblicato dalla Nord (grazie alla vittoria del premio Cosmo) e per lungo tempo sei stato così identificato come uno dei volti italiani del Cyberpunk, eppure tu all’epoca non solo dichiarasti di non aver letto molto di quel genere letterario, ma di non considerare la tua creazione come un “prodotto Cyberpunk”. A distanza di tempo quali sono le tue impressioni su quel genere letterario, nel bene o nel male?
Vietti: Cyberworld derivò innanzitutto dalla mia passione per i computer e dal fascino che la realtà virtuale, di cui si parlava davvero moltissimo in quegli anni, esercitava su di me. Circa la lettura del cyberpunk, ricordo che avevo letto Neuromante, che mi aveva colpito, ma che non era mi piaciuto davvero. L’avevo trovato troppo difficile, astruso, come un gomitolo di una matassa bellissima, ma difficile da dipanare. Dopodiché in quel periodo volli evitare altre letture del genere, soprattutto per non correre il rischio di “copiare” involontariamente.
Volevo qualcosa che fosse veramente mio. Così, memore di Neuromante, sono partito dal presupposto di cercare di fare qualcosa di più fruibile dal pubblico, a dispetto di voler parlare comunque di realtà virtuale. Difatti è vero quello che dici: non volevo scrivere un romanzo cyberpunk. Alla fine però, paradossalmente credo di non essere riuscito in nessuna delle due cose. Innanzitutto perché non sono convinto che Cyberworld sia un libro davvero facilmente fruibile (per lo meno nell’edizione del ’96, in quella del 2015 ho adottato alcuni accorgimenti per agevolare la lettura) e in secondo luogo ormai sono dovuto venire a patti con la consapevolezza che Cyberworld è, di fatto, un romanzo assolutamente cyberpunk. Sono giunto alla conclusione che, se vuoi parlare di quell’argomento e vuoi restare credibile, non puoi a sottrarti ai paradigmi letterari e linguistici che delimitano quell’etichetta. Pensa a Stross…
Nick: Uno dei pregi migliori di “Cyberworld” sta proprio nel suo scenario e nel world-building che gli sta dietro. Quali sono state le fonti d’ispirazione maggiori per la sua creazione?
Vietti: Saggistica, davvero un sacco di saggistica. Poiché in quel periodo stavo terminando l’università, mi proposi di scrivere il libro quando mi fossi laureato, nella certezza di avere almeno qualche mese di “disoccupazione” dopo la laurea a disposizione per scrivere. Così in effetti fu, anche se quel tempo alla fine fu un po’ meno del previsto. Scrissi il romanzo in poco più di tre mesi, ma per prepararmi nei mesi precedenti avevo letto moltissima saggistica, sia tecnica che filosofica sulla realtà virtuale. Dopodiché ricordo che mi lasciai suggestionare, come cito in fondo ai ringraziamenti del libro, dalla musica dei Pink Floyd che è stata la tracklist dell’intera stesura. Una specie di trip, ma senza francobolli, insomma! Devo dire, comunque che hai centrato il punto. Personalmente considero Cyberworld un romanzo di formazione letteraria in cui lo scenario e la sua credibilità hanno avuto la parte preponderante delle mie attenzioni. Forse era inevitabile, visto che si tratta di una storia che si svolge interamente nel ciberspazio, per cui alla fine proprio il ciberspazio risulta il vero protagonista del libro.
Nick: Nel 1999 arriva, sempre per la Nord, “Il Codice dell’Invasore”, che a tutt’oggi rimane uno dei tuoi lavori più rappresentativi. Rileggendo “Il Codice dell’Invasore” con il suo bel mix tra cyberpunk e sana vecchia fantascienza spaziale, tra avventura e SF catastrofica mi sembra che una delle costanti della tua narrativa sia il voler giocare tra i generi, il non volerti fossilizzare su un filone unico. È una sensazione sbagliata la mia?
Vietti: Mi piace molto il termine “sana vecchia fantascienza spaziale”, perché è il sottogenere con cui sono cresciuto, quella di cui ti parlavo, degli Asimov e dei Clarke, e che più avanti è stato quello – per dire – dei Benford e dei Brin (e come vedi sono sempre scienziati). Comunque, è vero, hai ragione anche in questo caso. Non ho mai pensato a conformarmi in un genere o in un filone. Scrivo quello che mi piace in quel determinato momento della mia vita, quello in cui mi imbatto, che mi diverte e che mi fa stare a mio agio con le mani sulla tastiera. E visto che noi stessi cambiamo gusti a mano a mano che evolviamo (ehm, invecchiamo), non si può mai dire di preciso che cosa scriverò dopo, anche se resto sempre comunque fedele all’idea di “fantastico”, ancorché nella sua accezione più ampia possibile. Per dire, pur restando sempre in ambito non realistico, oggi mi capita di scrivere cose abbastanza diverse.
Nick: Un’altra costante della tua narrativa, un argomento che ricorre molto sempre ne “Il Codice dell’Invasore” è rappresentato dal tema della costante lotta per mantenere intatta la propria umanità nonostante tutti i cambiamenti culturali e tecnologici che possono interessare la società. Non a caso il misterioso morbo che fai comparire nel romanzo e il tentativo di combatterlo attraverso la clonazione sono solo strumenti che tu utilizzi per descrivere questa lotta. Per la seconda volta ti chiedo se la mia è una sensazione sbagliata e poi- conseguentemente- ti chiedo da cosa nasce il tuo interesse per questi temi.
Vietti: A me piace affrontare sempre questioni estreme, in un certo senso, temi che ci toccano profondamente, che sono quelli che interessano prima me e poi, spero, i lettori. In Cyberworld per esempio i temi portanti sono due: (1) l’uomo nella realtà virtuale, ovvero una realtà di cui egli è artefice e di cui quindi si può finalmente davvero considerare dio, ma nella quale paradossalmente si ritrova a essere scavalcato da un autentico essere onnipotente e (2) lo scontro ideologico e profondissimo tra realtà reale e realtà virtuale, oggi potremmo dire tra il vivere-al-pub e il vivere-su-Facebook. Ne Il Codice dell’Invasore invece i temi portanti sono: (1) da dove nasce la nostra umanità, ovvero da dove nascono i pensieri che ci rendono diversi da una macchina, che ci rendono umani? (2) Siamo davvero liberi di pensare quello che vogliamo, o il nostro libero arbitrio è solo illusione? Insomma, mica roba da niente.
Nick: Nel settembre di quest'anno “Il Codice dell’ Invasore” è stato riproposto dalla Delos. Parlaci di questa ristampa.
Vietti: In realtà non è stato“stampato” niente, nel senso che l’edizione è solo digitale, per tutte le piattaforme di lettori disponibili. È stato Silvio Sosio di Delos Books a chiedermi di poter ripubblicare i romanzi che ormai da tempo non erano più disponibili e io sono stato entusiasta di accettare la sua proposta. Ma siccome volevo comunque dare ai lettori qualcosa di più rispetto alle edizioni originali, ho voluto che ci fosse un’introduzione a entrambi i volumi. Così, se per Cyberworld, uscito qualche mese fa, ho trovato la gentile disponibilità di Giovanni De Matteo, la personalità più adatta a farlo nel suo ruolo di co-fondatore del Movimento Connettivista, di cui Cyberworld in qualche modo precorre le orme, per Il Codice dell’Invasore ho avuto l’onore di ospitare nientemeno che una bellissima prefazione di Sandro Pergameno. Hai bisogno che ti dica chi è Sandro Pergameno? Insomma, cosa potevo volere di più?
Nick: Rispetto al 1999 quali sono gli elementi del tuo romanzo che trovi ancora attuali e perché e, invece c’è qualche pagina, elemento o personaggio che adesso come adesso avresti la tentazione di cambiare o riscrivere?
Vietti: A questo proposito ti invito a leggere la lunga postfazione che ho scritto per la nuova edizione di Cyberworld, ma che, almeno nella parte iniziale, è perfettamente valida anche per Il Codice dell’Invasore: cosa succede a rileggere un tuo romanzo dopo quindici anni? È un’esperienza molto interessante, ma anche un po’ spaventosa, scary, direbbero gli inglesi. Tuttavia devo dire che non solo ne sono uscito indenne, ma ne sono rimasto piacevolmente sorpreso, per entrambi i romanzi. Insomma, non ho avuto l’impulso di rinnegare alcunché di quello che ho scritto. Questo non significa che non mi sia accorto che avrebbe potuto essere fatto meglio o che oggi non lo riscriverei in maniera (completamente?) diversa. Ma complessivamente secondo me i due libri funzionano ancora bene. In particolare Il Codice dell’Invasore, per la sua struttura complessa di trame e sottotrame, resta una sorprendente impresa di incastri che alla fine vanno ancora tutti al loro posto. Così, insomma, non doversi rinnegare alla fine della rilettura è stato parecchio consolatorio.
Nick: Nel corso degli ultimi anni hai partecipato con tuoi racconti a diverse antologie interessanti. In particolare vorrei che tu ci parlassi del racconto "Lo Spread Spiegato a Mio Figlio" su Crisis. Parlaci del racconto e dell'antologia.
Vietti: Eravamo nel pieno, il culmine forse, della crisi economica ed era l'epoca in cui ogni giorno sentivamo parlare di questo fantomatico spread, questa entità finanziaria difficile da capire per chi - come me - non mastica di economia. In quel periodo mi pervenne la richiesta di Alberto Cola per un racconto proprio sul tema della crisi, ma vista in una prospettiva futura, un futuro vicino, da qui a pochi anni, una sorta di "come saremo" o di "come andrà a finire questa storia". Nel mio caso, quello che è venuto fuori è forse uno dei miei racconti più complessi. In altre parole immagino che in un mondo messo in ginocchio dalla crisi e in cui il capitalismo è scomparso schiacciato da se stesso, il bisogno dell'acquisto compulsivo presso gli individui sia comunque ancora molto forte, come una dipendenza ormai connaturata all'essere umano. Così ho immaginato l'esistenza di una droga, l' Amex (che forse qualcuno avrà notato essere non a caso il nome con cui viene abbreviata l' American Express) che viene propinata scientemente dallo Stato ai cittadini e che permette di vivere esperienze consumistiche virtuali. Il problema è che dopo un po' l'esperienza non basta più e chi usa questa droga tende a volere di più e dunque a utilizzarla in un modo particolarmente estremo. Lo spread è proprio l'esasperazione di questa pratica ed è inutile dire che è anche molto pericolosa. Si tratta, insomma, di un racconto che prende una posizione netta contro il consumismo nel quale siamo immersi a dispetto della crisi e in particolare contro quel concetto di "crescita" che tentano di propinarci come unico modo per uscirne, quando invece tutti possono rendersi conto che una crescita infinita è fisicamente, economicamente, biologicamente ed ecologicamente impossibile.
Nick: Com'è cambiato nel corso del tempo l'approccio alla scrittura di Alessandro Vietti?
Vietti. Sono abbastanza convinto che sia più semplice valutare come cambia nel tempo il proprio approccio alla scrittura, osservando come evolve nel corso della propria vita il proprio approccio alla lettura. Perché la scrittura è innanzitutto lo specchio di una sensibilità. Lo stile, il modo di scrivere, i temi che un autore vuole affrontare con la scrittura sono frutto dell'evoluzione della sua personalità e riflettono ciò che della realtà fa vibrare le corde del suo animo, ciò che gli piace, che gli interessa, che lo fa incazzare, che in qualche modo sente come parte di lui nel bene e nel male. Ma la lettura non è molto diversa. Il meccanismo con cui scegliamo i libri e con cui li giudichiamo attinge alla stessa personalità e agli stessi meccanismi di similarità. Insomma, se adesso trovo noiosa o letterariamente poco interessante una narrativa che invece mi garbava molto vent'anni fa, sarà difficile che adesso io scriva come scrivevo vent'anni fa. La mia scrittura sarà evoluta (è anche un auspicio, questo) nello stesso modo, insomma. Magari con questo non si riuscirà a dire esattamente dove uno è finito, però dice senza dubbio dove uno non è più e, forse, quale strada ha intrapreso. Nella fattispecie mi sono reso conto di aver bisogno di letterarietà, di libri complessi (ma non complicati), di ironia intelligente, di creatività e di personalità, di sentire forte il timbro dell'autore e di affrontare temi intensi che riescano a coniugare profondità, ma anche intrattenimento. E questo è quello che mi propongo di mettere nei miei scritti. Che poi, a pensare a ciò che ho scritto in passato, forse potenzialmente questa visione c'è sempre stata, solo che adesso è più consapevole e ricercata.
Nick: Nell’ ambiente sei conosciuto anche per la tua attività di saggista e di blogger, in particolare penso al sito Il Grande Marziano da te creato e sul quale scrivi da tanti anni. Racconta qualcosa di quel blog a chi ancora non lo conosce.
Vietti: Qui parliamo di un’esperienza di scrittura completamente diversa, con la quale ho voluto mettermi alla prova qualche anno fa, in concomitanza con una cosa che stavo scrivendo e che aveva un’attinenza perlomeno trasversale con lo spirito del blog. Il grande marziano richiama il suo nome dal grande fratello di orwelliana memoria, proponendosi di fungere da osservatorio esterno privilegiato, per cercare di proporre prospettive o stimolare punti di vista alternativi rispetto a quelli comunemente diffusi dai media, con un occhio anche alla provocazione e alla satira sociale. Cercare di riflettere con lucidità e indipendenza su tutto quello ci accade intorno. Si parla quindi soprattutto di cronaca, società, politica, sport, ma anche, inevitabilmente, di letteratura, cinema e, a tratti, anche di fantascienza. È dunque un esperimento prima di tutto su me stesso, per allenarmi all’ analisi al di fuori dagli schemi consolidati e in secondo luogo per costringermi anche in questo contesto a mantenere una scrittura efficace. In effetti, soprattutto nella sua incarnazione su Facebook , il blog ha un discreto seguito e quindi cerco non senza fatica di portarlo avanti con la costanza di cui attività di questo genere hanno bisogno per continuare a vivere. Internet e i social sono divoratori e digeritori di contenuti. L’aggiornamento frequente è una condizione necessaria.
Nick: Questa è una domanda per l’Alessandro Vietti saggista, recentemente ho apprezzato il tuo I Nuovi Orizzonti Della Fantascienza, quindi la domanda ti tocca: qual è lo stato di salute della fantascienza? Naturalmente se vuoi puoi darci tu una tua definizione di cosa rappresenti per TE la SF.
Vietti: In quel saggio giungevo alla conclusione che la fantascienza stesse cambiando pelle, come ha cambiato pelle il rapporto della società con la scienza e la tecnologia che costituiscono l’humus stesso della fantascienza. Quindi se da un lato scienza e tecnologia ci hanno abituati a vivere nella fantascienza, non sorprende che la fantascienza veda lentamente sbiadire l’etichetta della sua nicchia e tenda sempre più a rientrare nella narrativa tout-court, quella propria della realtà, come sempre più spesso si vede accadere anche all’interno delle case editrici più importanti, notoriamente refrattarie alla fantascienza propriamente detta. Per il noir, il giallo e l’horror è già avvenuto. Perché dunque non può succedere anche con la fantascienza? Così su due piedi mi vengono in mente titoli come La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo di Audrey Niffenegger, Sirene di Laura Pugno, Gli scaduti di Lidia Ravera, Lo spazio sfinito di Tommaso Pincio, Storia di Karel di Antonio Pennacchi, per non parlare delle opere di Jonathan Lethem o di quelle di George Saunders, tutti usciti per case editrici di primaria importanza che nulla avevano a che fare con la fantascienza. Quindi nessuna morte della fantascienza, anzi, la fantascienza è quanto mai in salute, ma forse sta avviandosi verso una vita completamente nuova. Il problema dell’appassionato, semmai, sarà quello di scovare le opere fantascientifiche perdute nel maelström dei titoli mainstream, in mancanza dello scaffale dedicato. Ma da questo punto di vista penso che la rete saprà essere la nuova bussola dell’appassionato. In fondo lo scaffale della fantascienza per certi versi ha già perduto terreno da tempo.
Nick: Se dovessi consigliare qualcosa di tuo a chi non ha mai letto niente scritto da te, cosa gli consiglieresti?
Vietti: Dipende anche dal lettore, naturalmente, e dalle sue predilezioni. Nella fattispecie direi di provare con "Il Nonno non è Quello che Sembra" per due motivi. Il primo è perché si tratta di un racconto disponibile gratuitamente, recentissimo, uscito solo pochi giorni fa nell'antologia in ebook TrueFantasy Horror Stories 2015 (la trovate scaricabile qui: http://truefantasy.altervista.org/tag/truefantasy-horror-stories-2015/). Devo confessare che è stato scritto in soli cinque giorni, che per me è un autentico record, quindi potrebbe non essere limato alla perfezione, però trovo sia un bello specchio di quello che intendo per narrativa in questo momento. Nella fattispecie uso lo stratagemma del genere horror per affrontare in modo inedito uno dei conflitti più classici: i giovani contro i vecchi, ovvero la vecchiaia vista dalla prospettiva (distorta) della gioventù. Alternativamente consiglio il racconto "Emocrazia" incluso nell'antologia Sinistre presenze (Bietti), che ritengo una delle mie cose migliori, un lavoro nuovamente horror, su politica e società scritto nel 2010, ma terribilmente attuale.
Nick: Interessante il tuo spunto: sei conosciuto per i tuoi romanzi di fantascienza eppure hai citato due opere horror. Quindi come definiresti l'Alessandro Vietti scrittore?
Vietti: Questo credo faccia parte dell'evoluzione di autore di cui ti parlavo prima. Il genere horror è entrato nelle mie letture più tardi rispetto alla fantascienza e quindi l'ho assimilato più di tardi in termini di bagaglio espressivo. In ogni caso, rispetto anche solo alle tematiche sulle quali mi soffermo per la mia narrativa, devo dire che non mi considero un autore di fantascienza, bensì uno che usa la potenza letteraria del fantastico per parlare dei temi che di volta in volta più gli stanno a cuore. A volte può essere la fantascienza, a volte l' horror, a volte né l'uno, né l'altro. Del resto, perché negarsi l'uso di strumenti così potenti? Per esempio, la storia con cui sono alle prese in questo periodo è molto surreale, dunque non appartiene strettamente né alla fantascienza, né all'horror. Insomma, quello che posso affermare è che il realismo non appartiene al mio registro. Ma non posso escludere a priori che la mia evoluzione non mi porti prima o poi anche da quelle parti.
Nick: Tra i tuoi colleghi scrittori italiani e stranieri quali sono quelli che segui con maggiore attenzione ed interesse?
Vietti: Ormai da qualche anno la fantascienza come lettura non occupa i primi posti della mia read list. C’è troppo mondo, là fuori, e troppo poco tempo in questa vita, per trascurarlo. Quindi leggo davvero di tutto, compresi certi classici che avevo colpevolmente lasciato indietro. Ultimamente tra gli stranieri emergenti mi ha impressionato moltissimo Ben Lerner di Nel Mondo a Venire, un libro pazzesco. Altri che apprezzo parecchio sono David Mitchell, Jonathan Lethem e George Saunders. E qui siamo comunque abbastanza nei territori della fantascienza o comunque del fantastico che piace a me, anche nel caso di Saunders, che vi straconsiglio di andare a cercare. Nella fantascienza più propriamente detta, penso che Ted Chiang e China Mièville siano tra coloro che hanno quel quid in più. Quanto all’Italia, ci sono molti scrittori di fantascienza che si stanno imponendo sulla scena nazionale e una citazione parziale rischia di fare torto a qualcuno. Faccio dunque un solo nome, che è quello che più mi ha impressionato di recente: Andrea Viscusi. Il suo Dimenticami Trovami Sognami edito da Zona 42 è un romanzo davvero molto bello, interessante e, rispetto alla sua originalità e diversità nei confronti di quanto siamo abituati a leggere di solito, coraggioso. Chi non l’ha fatto, rimedi: lo legga.
Nick: Torniamo un attimo all'Alessandro Vietti saggista. Spesso nel corso dei tuoi articoli (penso ad esempio a quelli scritti per Robot) affronti i cambiamenti della tecnologia e l'impatto che questi hanno nelle nostre vite. Ma quanto, secondo te, la realtà ha trasformato (o magari ucciso) la capacità immaginativa della fantascienza?
Vietti: Quando Neil Armstrong mise piede sulla Luna, Ray Bradbury disse che quel giorno la fantascienza era morta. Invece è ancora qui. Però senza dubbio è cambiata. Io credo ci siano soprattutto due cose da considerare. La prima è l'idea che abbiamo noi, adesso, del futuro nostro e del genere umano, nel breve e nel lungo periodo. La fantascienza è un genere molto legato a questo concetto e non può prescindere da esso. La seconda è il nostro rapporto con la scienza e la tecnologia, ma non tanto rispetto alla loro evoluzione quanto, per così dire, rispetto alla derivata della loro evoluzione, ovvero rispetto alla velocità con cui questo cambiamento ci ha travolto e ci sta travolgendo. Dunque credo che la fantascienza non soffra tanto il progresso in assoluto, quanto la velocità con cui esso avviene, in quanto soffoca gli autori nel suo andare più veloce della loro immaginazione. Negli ultimi vent'anni abbiamo visto le nostre esistenze circondate, immerse, assediate dalla fantascienza reale, dai progressi incredibili dell' Information Technology, dalla facilità con cui oggi andiamo su Marte e vediamo quotidianamente paesaggi alieni, ma ormai del tutto familiari, in tempo praticamente reale. La fantascienza si è sempre nutrita di mitologie, che poi ha assimilato reinventandole. Ovviamente ciò che non è più mito, non è più così semplice da "fantascientifizzare", perché non sollecita più il nostro immaginario. Dunque la fantascienza deve rivolgersi altrove. Negli anni '80, morta la corsa allo spazio, lo ha fatto col cyberpunk. Oggi, morto il cyberpunk, forse non è così semplice trovare un nuovo sguardo, per lo meno uno sguardo comune, strutturato, istituzionalizzato, così finiscono per contare la prospettiva e la sensibilità dei singoli autori ancor più di quanto questo sia valso in passato
Nick: Progetti futuri. di cosa ti stai occupando adesso e cosa dobbiamo aspettarci da Alessandro Vietti nel prossimo futuro?
Vietti: Ho un romanzo di fantascienza cui credo molto e sul quale ho speso davvero parecchie energie e che è là fuori da qualche tempo, in cerca di fortuna. La speranza è che possa trovare presto una casa che lo valorizzi e lo proponga finalmente al pubblico. Sono convinto che valga davvero la pena, anche perché la ritengo la cosa migliore che ho scritto finora. Poi attualmente sto scrivendo un’altra cosa che è nel contempo piuttosto ambiziosa (diciamo che in questo caso l’asticella l’ho alzata parecchio) e, per certi aspetti, anche piuttosto… scandalosa. Forse tanto l’una quanto l’altra. Qui siamo solo un poco più distanti dalla fantascienza vera e propria, anche se l’aspetto fantastico non manca. Entro i primi mesi del 2016 dovrebbe essere finito. Dopodiché anche lui cercherà ospitalità in giro.
Nick: Bene, è tutto, nel ringraziarti per la tua disponibilità e per la tua gentilezza ti chiedo se esiste una domanda alla quale avresti risposto volentieri e che io invece non ti ho rivolto?
Vietti: Questa è una chiosa un po’ marzulliana e mi diverte molto. In effetti sarei tentato di dirti che c’è già un sacco di carne al fuoco (il che è vero), che abbiamo già tediato moltissimo i lettori che non arriveranno mai a leggere fin qui (il che è probabile, ma nel caso più per le mie risposte che per le tue domande) e che la tua intervista è già completissima e sviscera davvero a fondo tutti gli aspetti del mio essere autore (il che è innegabile), svelando cose di me di cui nemmeno io ero consapevole prima di rispondere. Praticamente come una seduta psicanalitica, ma bella! Per questo lascia che rinnovi il mio sincero ringraziamento a te, a Nocturnia e a True Fantasy per l'edizione precedente e concentrata di questa intervista. e a tutti i lettori che hanno (o non hanno) avuto la pazienza di seguirci fino qui. Però a pensarci bene una domanda ci sarebbe ed è la seguente: Sembra dunque che la tua scrittura non possa prescindere dall’elemento fantastico. Perché per te è così importante? La mia risposta sarebbe stata questa: Perché col fantastico riesci a parlare del presente facendo finta di parlare di qualcos’altro. Perché il fantastico ti permette di simbolizzare, senza incorrere nella stucchevolezza dell’essere esplicito e, quindi, noiosamente didascalico. Perché il fantastico ti consente di trattare di tematiche importanti con una forza e un’incisività sconosciute alla narrativa convenzionale. E perché il fantastico è, incredibilmente, assolutamente, tremendamente più divertente. Ti pare poco?
- ALESSANDRO VIETTI: UNA NOTA BIOGRAFICA (Ottobre 2015)
Alessandro Vietti, ingegnere, nasce giusto in tempo per essere presente alla conquista della Luna. Forse è per questo che è da sempre appassionato di astronomia e fantascienza. Vive e lavora a Genova nel settore dell'energia e nel tempo libero si occupa di divulgazione scientifica e scrittura. Suoi articoli sono apparsi sulla rivista Robot e sui mensili Coelum, Le Stelle e L'Astronomia. Nelle vesti di autore ha pubblicato i romanzi Cyberworld e Il codice dell'invasore, il primo dei quali vincitore del Premio Cosmo 1996, nonché svariati racconti. Di recente suoi lavori sono apparsi nelle antologie Ambigue utopie (Bietti), Sinistre presenze (Bietti), Crisis (Della Vigna), I sogni di Cartesio (Della Vigna), Ma gli androidi mangiano spaghetti elettrici? (Della Vigna). Il grande marziano (http://ilgrandemarziano.blogspot.com) è il suo blog.
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5 ore fa
18 commenti:
Ma è meglio un Marziano Grande o un Grande Marziano?
Proprio un bel personaggio Alessandro :)
@ Eddy M
Meglio un Grande Marziano Grande! :)
Bellissima intervista come sempre. Il racconto sullo spread mi incuriosisce, sarà che anch'io credo che ormai il consumismo stia diventando un'abitudine inconscia in tutti noi e potrebbe davvero paragonarsi a una droga. L'allegorizzazione che ne fa Vietti è decisamente interessante.
@ Ariano Geta
Il racconto sullo spread è effettivamente molto simbolico ed emblematico, ma un po tutta l'antologia merita la lettura, diversi autori hanno compiuto in quel caso delle allegorizzazioni interessanti.
Bè io mi sono gustato dell'intervista sopratutto l'aspetto legato al suo essere scrittore, al processo di creazione ecc... "Sempre meglio ascoltare chi ne sa più di te", questo è quello che mi ripeto sempre. Bravo Nick, bella intervista.
Grazie a Nick, della bellissima intervista. E grazie a tutti dell'attenzione e dell'apprezzamento! :-)
@ massimiliano riccardi
Sapevo che avresti apprezzato! ;)
E grazie per essere un lettore così fedele di questo blog!
@ il grand emarziano
E' stato un piacere! Il risultato finale ci ha ripagati entrambi! ;-)
Grazie Nick, entro in punta di piedi e a testa bassa perché tratti un genere che conosco poco, ma come si dice la curiosità è tanta. Tra cinema, letteratura, fumetti, sono onnivoro.
Avevo adocchiato " Il codice dell'invasore" e ora è stato aggiunto alla lista delle letture da fare.
Un'intervista corposa, bella!
Grandiosa! Interessanti tutti gli spunti forniti per letture e notevole le chiacchiere sulla fantascienza in Italia e il rapporto che oggi abbiamo con essa. Lunga davvero, ma vale assolutamente la pena, fosse solo per la chiosa sul valore e le possibilità del "fantastico".
Complimenti a te Nick, bravissimo *__*, e a Vietti!
Sicuramente qualcuno di questi titoli finirà nel listone ;-)
@ massimiliano riccardi
Ce ne vorrebbero di più di persone e di lettori come te. :)
Ed essere onnivori oggi come oggi è una gran bella virtù!
@ Michele il menestrello pignolo
Sono lieto di averti fatto scoprire "Il Codice dell'Invasore", che secondo me, è un ottimo esempio di fantascienza nostrana.
In quanto alle mie interviste come vedi diventano sempre più lunghe ogni giorno che passa. ;)
@ Glò
E' uno dei motivi per cui ho voluto riproporre questa intervista, proprio per le sue interessanti considerazioni sulla natura della fantascienza de l "fantastico".
Non potevo non riproporla! :)
E' sempre un piacere ricevere i tuoi commenti! *_____*
@ Andrea Cabassi
Ne sono felice. ;-)
Intervista davvero bella e ricca di spunti di riflessione. Di solito sono freddo di fronte alle interviste che trovo quasi sempre banali e a volte addirittura noiose. Ma devo dire che quelle che fai tu sono tutte ottime. Grande!
@ Diego
Mi credi se ti dico che la stessa cosa me l'hanno detta in molti?
Per fortuna che la maggior parte dei miei intervistati apprezza ben volentieri le mie interviste (molto più lunghe della norma).
Sanno che alla fine il loro maggior sforzo sarà apprezzato e potranno parlare di tutta la loro carriera.
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